Il 1859 da Plombières a Villafranca. Alfredo Panzini

Il 1859 da Plombières a Villafranca - Alfredo Panzini


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del senso del reale non potè accordarsi con colui che fu detentore massimo del senso dell'ideale, cioè col Mazzini. La qual cosa non vuol dire che l'uno abbia torto e l'altro ragione. V'è nella leggenda biblica Lia e Rachele, lo spirito attivo e lo spirito contemplativo; v'è nella parallela la linea destra e la linea sinistra: non si toccano mai; ma ambedue sostengono il carro e nella visione lontana ambedue le linee convergono in una.

      Io non nego che, indipendentemente dal temperamento dei due uomini, non possa spiacere questa specie di sconoscenza del Cavour verso il Mazzini; ma oltre alle cose che diremo in seguito, qui ci piace ricordare come il Cavour, giudicando secondo la sua coscienza, si sentiva offeso da quel partito mazziniano, che pretendeva da solo «al monopolio del patriottismo e dell'amore per la libertà».[48] Credeva inoltre che la monarchia sabauda «avendo mantenuto e sviluppato nel decennio il principio costituzionale, avesse nociuto all'Austria ben più seriamente che le sommosse del Mazzini».[49]

      Il Cavour, dopo l'Alfieri, è l'altro allobrogo grandissimo attratto dalla voce della gran madre, l'Italia. Certo quella sua manchevolezza di studi filosofici e classici, l'ambiente in cui visse da giovane, lo mettono troppo in contrasto con altri italiani, che assursero all'idea della patria e della libertà da una quasi saturazione di pensiero antico e da una stupenda fraternità d'anima col popolo.

      Questa deficienza nel Cavour può spiacere: come a chi è propenso alle idee di republica, può spiacere quella sua fedeltà incondizionata al monarca sabaudo, sino agli ultimi aneliti, sino alle parole supreme; tanto che ad un primo superficiale esame si dubiterebbe se egli ami più la patria o la monarchia. Per quanto animato da spiriti nuovi e uomo nuovo nel vecchio Piemonte, egli è pur sempre uscito da quella nobiltà feudale e guerriera che fiorì intorno al trono.

      Con tutto questo non si dimentichi che la politica, risolutamente italiana del Piemonte, è opera del Cavour, e ciò non avvenne senza qualche opposizione. Carlo Alberto nei suoi perpetui tentennamenti lo avrebbe dichiarato «l'homme le plus dangereux de son royaume»;[50] e si citano i giudizi dei re per non riferire quelli degli altri, giacchè se è bel destino dei re portare tutte le glorie dei loro sudditi, è anche brutto destino portare talvolta anche le loro colpe.

      Ben è vero che l'Azeglio, dopo Plombières, scrisse al Cavour una lettera ove è detto «oggi non si tratta più di discutere la tua politica, ma di farla riuscire»,[51] frase se non proprio degna di Plutarco, come nota il Bonfadini,[52] degna di un patriotta di cuore e di acuto senno, il quale ben conoscendo l'abilità — mi si conceda l'espressione — del cuoco, accetta le vivande con gli ingredienti che questo ha a sua disposizione. È dopo la morte del cuoco che gran turbamento avvenne in cucina! Ma che le arti politiche del Cavour gli gradissero tutte, non oserei dire. L'assoluto del giudizio dell'Azeglio rispetto all'Italia e la rettitudine della sua morale, ammirabile senza dubbio, ma in contrasto con le necessità della politica, lo porteranno a chiamare quelle arti «giuochi di bussolotti del povero Camillo e Compagni», espressione non destinata alla pubblicità[53] e detta con forza di preterizione, ma che è significativa e può oggi essere palesata. E se alcunchè di vero è nella cruda espressione, vero è anche che furono «giuochi» leali, e morto lui, nessuno li seppe più così bene eseguire. Quanto poi queste arti dispiacessero al Mazzini, come di mala opportunità le incolpasse, è cosa nota. Caratteristica questa atroce opinione: «Se i popolani d'Italia vibrassero i loro coltelli al grido di Viva il re Sardo! e vincessero, voi li abbraccereste fratelli. E se vincessero anche senza quel grido, voi li abbraccereste il dì dopo, per cercare di impossessarvene e sviarne e tradirne i nobili istinti a benefizio d'un concettuccio ambizioso della monarchia».[54]

      Sospinse il Cavour Carlo Alberto alla guerra;[55] sospinse senza pentimenti, risolutamente, Vittorio Emanuele su la via della Rivoluzione. La monarchia conquisterà l'Italia, l'Italia le si arrenderà incondizionatamente.[56] Ma egli comprende che questa sottomissione della Rivoluzione alla Monarchia non può avvenire per atto di coercizione o di fedeltà in senso feudale, cosa non conforme alla tradizione italiana, ma per spontaneo accorrere e fondersi di forze, per patto di riconoscenza. La monarchia deve «fare il suo dovere», la monarchia deve «magnetizzare» la rivoluzione. V'è un passo del Cavour che simboleggia questo concetto in modo evidente. In una lettera al Farini, del 5 ottobre, dice: «Occupate senza indugi gli Abruzzi. Fate entrare il Re in una città qualunque e là chiami Garibaldi a sè. Lo magnetizzi....»[57] Esita il Re? Lo rincuora: «Oggi o domani Vostra Maestà porrà il piede sul suolo napoletano. Passo magnanimo che supera in ardire il passaggio del Ticino nel 1848».[58] Scoppierà una nuova guerra contro l'Austria? E per questo? «Siamo preparati a tutto. Nasca quel che sa nascere; se abbiamo da soccombere, lo faremo valorosamente e salvando la fama dell'Italia, assicureremo il suo avvenire».[59]

      In altri termini il Regno non deve essere soltanto donato al «sopraggiunto Re», nè il Re andrà alla sua mensa e Garibaldi spezzerà solitario, con fronte dolorosa, il secco pane.

      Il passaggio della Cattolica e del Tronto nel '60, la Monarchia osante quanto la Rivoluzione; la Monarchia che affronta essa radicalmente la questione di Roma; la Monarchia instauratrice di un novus ordo; la Monarchia che non manda a casa i garibaldini con un «benservito», sono le condizioni perchè il Re possa veramente essere Re d'Italia. E questo scomunicato muore col frate confessore accanto e con l'olio santo. Leverà Iddio la scomunica![60]

      Tutte queste cose potrebbero dimostrare che l'uomo geniale è pur sempre idealista, anche se spirito matematico.

      La dichiarazione[61] del Mazzini del 2 marzo 1860 è indizio di questa politica vittoriosa, ed il Carducci, incolpato di manifestazioni monarchiche e sabaude nella sua giovanezza, spiega con lo stato della sua anima quella di tanti italiani, i quali, «nel '59 e nel '60, accolsero la formola Italia e Vittorio Emanuele.... per il concetto che nella fusione dell'elemento signorile col cittadino, dell'esercito col popolo, delle memorie monarchiche con le democratiche, etc., la storia d'Italia troverebbe alfine il suo complemento necessario».[62]

      Questo moto forte e concorde tanto durò, quanto durò la vita dell'uomo meraviglioso; ed è questa forza, è questa concordia che nei due anni, 1859 e 1860, produssero l'unità della patria. Scomparso lui, i due partiti si staccarono, e ciascuno riprese la sua libertà di azione. Gli uomini di parte moderata, spinti dall'impeto della politica del Cavour, si trovarono come viandanti in cerca di «estraneo lido». Ben vorrebbero proseguire, ma la guida geniale non è più. Rinvennero, con istintivo moto di prudenza, come un corpo elastico a cui è sottratta la forza che lo traeva. S'accostarono verso le idee di un altro grande rappresentante delle idee moderale, il D'Azeglio. Se non che questi nella rettitudine del suo spirito, già dal '53, quando sentì di non potere procedere oltre, aveva indicato il Cavour, se era giocoforza procedere; e pur servendo, quando fu richiesto, la patria, s'era ritratto dal potere.[63]

      Ma gli uomini che detenevano il potere, oramai troppo erano avanzati. Procedere volevano, certo, ma, tra difficoltà grandissime e varie, bisognava osare ed imperare bene, ed imperare e osare bene è cosa geniale: ritirare il piè non potevano. Subirono, non dominarono gli avvenimenti. Il partito della Rivoluzione o d'Azione, come fu chiamato, procedette per suo conto, ripudiando il motto «Italia e Vittorio Emanuele», e per converso al partito detto dell'ordine, s'accostarono i troppi, i quali costretti dalle mutate condizioni a riformare la moda del loro abito politico, scelsero la foggia che più pareva adatta a proteggerli. Poi fra le nuove parti divise s'incuneò possente la forza nuova della nuova idea internazionale. Quindi l'orientarsi verso sconfinate idealità sociali, da un lato; dall'altro le troppe faccende e le troppe ricchezze contribuirono a diffondere l'oblio, in questa nostra gente già così obliosa, di tanta gloria e di tanta storia palpitante ancora.

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