Fausto Bragia, e altre novelle. Luigi Capuana

Fausto Bragia, e altre novelle - Luigi Capuana


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Ah!, io temo che l'unica sinfonia dei baccilli rimarrà quella mia di ieri — altro che la tua! — mentre cercavo un tubo di spore di carbonchio che non riuscivo, nè son riuscito a trovare. L'avrò messo per isbaglio in qualche altro bicchiere, l'ultima volta che tu venisti lassù.... Quella, sì, è stata una sinfonia di imprecazioni sgorgata proprio di getto! Quanto a la tua, sapevo bene che non ne avresti fatto niente, che non ne farai più niente, ed ho voluto accertarmene coi miei propri occhi, uscendo dalla camera dell'ingegnere che è gravemente indisposto.... L'ingegnere lavora troppo e mangia troppo; credo che abbia un'enterite bella e buona. Non ne sai nulla?

      — No.

      — La signora m'ha domandato se è cosa grave; le ho detto la verità. È abbattutissima, povera signora.

      — Indisposta anche lei?

      — Lei sta bene; è per via del marito.

      — C'è pericolo?...

      — È stato già proposto un consulto.

      VI.

      L'ingegnere, prostrato dal grande abbattimento di forze, prodotto anche dalle frequenti emorragie del naso, mezzo assopito sui guanciali, si lamentava, fiocamente, mentre i dottori ascoltavano la relazione della malattia che il collega curante faceva sotto voce per non infastidire il malato.

      La signora Ghedini, che mostrava sul viso le traccie delle veglie e del dolore, seduta al capezzale, posava una mano su la fronte del marito e, di tratto in tratto, ripeteva ai dottori:

      — Scotta! scotta!

      Fausto non osava guardarla. Accorso a prestare assistenza, spalancava intanto gli orecchi per non perdere neppure una parola della relazione del dottore che enumerava a uno a uno i sintomi dell'enterite; e a Fausto pareva di sentir ripetere, motto per motto, quel che l'Anguilleri gli aveva detto nella sua prima visita al laboratorio: — Abbattimento di forze, emorragie, sordo dolore negli organi addominali. E — mentalmente egli aggiungeva — in tre o quattro giorni, morte e rapida putrefazione!

      Un atroce sospetto gli era già entrato nell'animo, sospetto che si mutò in orribile certezza per lui, quando uno dei dottori sussurrò all'Anguilleri:

      — Quasi tutti i sintomi del carbonchio; non le pare?

      — È affare di microscopio — rispose l'Anguilleri.

      — Oh, non invaderemo il vostro dominio, collega!

      E quel dottore, sorridendo, aveva accennato a Fausto, quasi per chiamarlo testimone della deferenza verso il collega.

      Fausto, invece, non capiva più niente; pareva diventato ebete.

      Soltanto, come in un sogno, rammentava una scena accaduta.... dove?... un breve dialogo... di chi?

      Era, stato lui o un demonio, che aveva detto: — Paolina, tieni; è un candito regalatomi da una bambina mia alunna...?

      Era Paolina o un'altra persona colei che aveva risposto: — Grazie! Grazie!?

      Era lui quel demonio che insisteva:

      — Non lo mangi?

      — Domani. Oggi mi sento male....

      E, come in un sogno, rivedeva sur un vassoio del salotto di Paolina quel fatale candito, involto nella carta rossa, quasi Paolina avesse voluto conservarlo.... Perchè non aveva egli ubbidito all'impulso della coscienza che gli suggeriva: — Riprendilo!... fallo sparire?... — Il commendatore non lo avrebbe trovato, non si sarebbe lasciato vincere dalla sua golosità pei canditi!...

       E assistendo, quasi in un dormiveglia, all'agonia e alla morte dell'ingegnere, Fausto ripeteva mentalmente: — È stato così! È stato così!

      Otto giorni dopo, non era ancora rinvenuto da quello stato di stupore e di prostrazione che lo aveva ridotta una larva d'uomo.

      In tutto il lungo concatenamento di circostanze che avevano influito sul corso della sua vita, Fausto già scorgeva una mente direttrice, una mano operante che gli facevano scontare, forse, peccati altrui, e che, certamente, lo punivano della vanità, della superbia, dell'orgoglio, delle aspirazioni sproporzionate coi suoi mezzi e con le facoltà del suo intelletto. Per ciò era caduto sempre più, sempre più in basso, senza potersi rialzare mai!... Spostato nella società; impotente in arte; delinquente.... e niente altro!

      E farneticando, raccoglieva carte e libri sul tavolino, cavava fuori dai cassettoni biancheria e vestiti; e tirato in mezzo alla camera il vecchio baule, foderato di strisce di pelle di cervo, vi andava riponendo ogni cosa alla rinfusa, quasi gli fosse arrivata l'ingiunzione legale di sgombrare.

      Dove sarebbe andato? Che avrebbe fatto?

      Non lo sapeva, nè si curava di saperlo; gli pareva che la sua vita dovesse, in un modo o in un altro, presto finire. Quegli stracci, quei libri, quei vecchi fogli di musica egli li calcava in quella specie di cassa mortuaria, prima che rinchiudessero lui in una cassa mortuaria vera, se pure ne avrebbe ottenuto una dalla pubblica pietà.

      Tutt'a un tratto, dal cupo fondo del cuore, gli sorse dinanzi la figura della signora Ghedini, vestita a lutto. Fausto indietreggiò, come davanti a uno spettro. L'aveva smarrita di vista, fra le nebbie che da otto giorni gl'ingombravano il cervello; l'aveva dimenticata! Almeno gli era parso così. E non solamente se la vedeva ora riapparire nella immaginazione, ma ne sentiva un'impressione fisica. I suoi nervi, diventati straordinariamente sensibili, già percepivano... che cosa? Non sapeva spiegarlo a sè stesso. La indovinava vicina, la sentiva arrivare, e tremava, tremava alle vibrazioni di un fascino che gli pareva lo afferrasse a traverso i muri, a traverso gli usci, e lo inchiodasse là. E quando la vide realmente apparire, abbrunata, un po' pallida, e sentì la stretta delle sue braccia attorno al collo, e la udì, come la prima volta, singhiozzare: — Fausto, come t'amo! Amami, Fausto! Eccomi ora tutta tua, soltanto tua! — parve a Fausto udire una voce beffarda che lo schernisse con quelle fatali parole, intanto che una mano di ferro lo ghermiva e lo incatenava a colei, saldamente e per sempre.

      VII.

      Il dottor Anguilleri aveva tanta stima di Fausto, che neppur scoprendo, sotto l'ingrandimento del microscopio, straordinariamente popolato di baccilli carbonchiosi il sangue dell'ingegnere, neppure allora badò a ravvicinare la circostanza dello smarrimento del tubo delle spore di carbonchio con la malattia che aveva ucciso quel pover'uomo.

      Soltanto un anno dopo, apprendendo per caso la notizia del matrimonio di Fausto con la Ghedini — Fausto non glien'aveva fatto mai cenno — un lampo gli rivelò l'orrendo delitto che quel matrimonio compiva. Egli credette che Fausto si fosse sbarazzato dell'ingegnere per sposarne la vedova.

      Forse, sapendo la verità, sarebbe stato meno severo.

      Andò a trovarlo, quasi per liberarsi della lieve responsabilità che sentiva pesarsi addosso, e non lo salutò, non gli strinse la mano; guardandolo fisso, lo tenne un'istante sotto il fuoco d'uno sguardo che rivelava di conoscere il mistero, e con accento di commiserazione e di disprezzo, gli disse:

       — Non lusingarti! Se taccio io, v'è chi non tacerà, chi ti farà espiare!

      E non attese risposta.

      In quel momento lo stesso dottore non avrebbe saputo dire a chi intendesse egli alludere parlando così: se alla signora Ghedini, se alla coscienza di Fausto, se a quell'occulta potenza che regge le cose di questo mondo e che a lui, materialista, non sembrava scientifico appellare Dio.

      Egli ignorava che il gastigo era già cominciato col disastro irreparabile dell'eredità dell'ingegnere. Dopo un anno, i sequestri, i processi, le espropriazioni, avevano scacciato Fausto e sua moglie dal palazzo Ghedini di via Nazionale.

      — Se taccio io, v'è chi non tacerà, chi ti farà espiare!

      Il dottor Anguilleri si rammentò di queste sue parole, parecchi anni dopo, la mattina che incontrò presso la stazione due persone — marito e moglie, si capiva — sciatte, curve,


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