Fausto Bragia, e altre novelle. Luigi Capuana

Fausto Bragia, e altre novelle - Luigi Capuana


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voce una strofa, ma voltò subito parecchie pagine, infastidito, sdegnato. Quella melodia gli richiamava alla memoria i più bei giorni del suo fervore artistico, e il confronto con la presente impotenza gli riusciva tormentoso.

      — No, no, lasciami: sono indegno di te!

      Si era levato da sedere, allontanando bruscamente le mani dell'amante, con un sentimento di rancore contro di colei che gli ridestava nel cuore aspirazioni assopite, anzi, morte, e gli faceva riconoscere uno stato di cui egli avrebbe potuto dubitare fino allora.

      — Dovresti darti tutto a questo lavoro, non pensare ad altro, e rinunziare anche alle lezioni, se fosse necessario... Te l'ho detto tante volte! — soggiunse umilmente la signora Paolina.

       — Non posso!

      Rispondeva sempre così, seccamente, sgarbatamente; e la innamorata donna, che non aveva mai insistito altre volte, non insistè neppur ora.

      E gli cinse le braccia al collo col suo abituale gesto di abbandono e di conforto, per fargli intendere che almeno avrebbe voluto esser lei la sua unica consolatrice! Non gli bastava?

      No, non gli bastava. Fausto si rimproverava spesso la propria aridità di cuore. Ma niente ormai valeva a scuoterlo, a vivificarlo, neppur quell'abbandono, quell'effusione inesauribile, quel continuo e sempre nuovo prodigarsi d'un cuore innamorato e ogni giorno più disposto a sacrificargli tutto, se Fausto avesse potuto avere la forza di chiederle sacrifici maggiori che non quelli del suo affetto e del suo corpo. Ma da qualche tempo in qua, al rimprovero seguiva subito una sdegnosa alzata di spalla. Erano ormai lontani il tumulto del cuore e la gioia della memorabile nottata, quando egli aveva creduto repentinamente vinta ogni tristezza della sua vita, quando gli era parso vedersi spalancare dinanzi l'avvenire luminoso di gloria, riboccante di benessere materiale!

      Otto mesi erano appena trascorsi, ed egli già cominciava ad accorgersi di trascinare la catena che colei gli aveva avvinta al piede e sentirne il fastidio.

      — Che hai? — ella insisteva.

       — Niente.

      — Qualche cosa ti preoccupa, lo vedo bene: non negarlo.

      — Niente.

      Ella taceva per non irritarlo, sapendo per prova che nessuna insistenza sarebbe valsa a altro strappargli di bocca che quella recisa parola — Niente! — Triste parola, che la lasciava dubbiosa, agitata da terrore indefinito, con gli occhi gonfi di lagrime, trattenute per non far peggio.

      III.

      Il dottor Anguilleri, sdraiato in una carrozzella da nolo, montava lentamente la ripida salita delle Quattro Fontane, quando scorse Fausto sul marciapiede, con le braccia dietro la schiena, il capo basso, il viso rannuvolato. Gli accennò con una mano e fece fermare il legno.

      — Accompagnami; tu non hai mai niente da fare. Come sei brutto oggi! Non ti consiglio di presentarti così alla tua amante; le faresti paura.

      Fausto, sedendogli a lato, rispose soltanto:

      — Dammi una sigaretta.

      Nel porgergliela, il dottore lo guardava in faccia con sorrisino beffardo:

      — Se gli amori vanno male, figuriamoci la musica!

      — Chi te lo dice?

      — Posso ingannarmi, forse, intorno agli amori; ma riguardo alla musica, no. Da vero amico, dovrei scapaccionarti peggio d'un ragazzo.

      — Oh, non seccarmi con le tue prediche!

      — Se lavorerò! Mi sento già diventato proprio un altr'uomo! — riprese il dottore, contraffacendone la voce e il gesto. — Sei imperdonabile!

      — Sono un disgraziato!

      — Senza energia, senza volontà!

      — Tu discorri bene! Vivi tranquillo; hai un posto, sarai professore e andrai anche più in su: nè conto che tuo padre ti ha dato in mano una professione con cui, fin ammazzando la gente, puoi guadagnare quattrini a palate.

      — Questo non ti scusa.

      — Non voglio scusarmi, ma spiegarti...

      — Col tuo ingegno, a quest'ora!... Se tu non avessi coscienza del tuo valore, non ti direi niente; tu però sai quel che vali, quel che puoi. Sei fiacco, sei poltrone; non mi stancherò di rinfacciartelo.

      — Sono un disgraziato! Come non lo intendi? Che vuoi tu che faccia? Mi manca il terreno sotto i piedi. Non ne parliamo più, è finita per me; sono incretinito. Ieri c'è corso poco che non stracciassi l'abbozzo dei primi due atti della Venere infernale. Chi ha scritto quella musica non esiste più! Non ho potuto aggiungervi una sola nota... da mesi. E rileggendo al pianoforte il risveglio di Venere, quando la statua della dea sente il fremito della vita animare il suo bel corpo di marmo — a te posso dirlo, non puoi credermi un vanitoso — ho pianto!... È finita! È finita! Perchè non mi butti nel Tevere, non lo capisco io medesimo...

       — E l'amore che pareva dovesse fare il miracolo?...

      — È diventato un gran guaio; non ne posso più. Mi ero lusingato....

      — Manda al diavolo quella donna.

      — Non è facile; e questo è il peggio!

      — Perchè?

      — Perchè... Non ne parliamo.

      Erano arrivati in Piazza Vittorio Emanuele davanti all'Istituto di Sanità, dove il dottor Anguilleri lavorava nella sezione battereologica.

      — Vieni su, ti distrarrai, — gli disse.

      — Tra i microbi? No; mi fanno schifo.

      — Manda al diavolo costei, e mettiti a lavorare! — ripetè il dottore che gli voleva molto bene e ne ammirava assai l'ingegno.

      Fausto gli strinse la mano e tornò addietro a piedi, riflettendo accoratamente che l'Anguilleri non aveva torto. In che modo poteva egli romperla? Abbandonando quelle stanze, aggravando così la sua trista situazione? S'era lasciato irretire e non sapeva come distrigarsi. Gli mancava il coraggio di dire a quella povera donna: — Non t'amo più! —

      — L'avea mai amata? Ella già dubitava; eppure gli si aggrappava addosso, come una naufraga, pazza di amore addirittura, decisa a commettere qualunque enormità! Non c'era verso di liberarsi di lei senza produrre uno scandalo. E intanto, maligna sorte! egli intravedeva che, forse, senza quest'impiccio, senza questo legame... Ah, che vita! Che tortura!

      Trasalì, vedendo quasi accoccolata sul canapè la signora Ghedini che lo attendeva. Pallida, con gli occhi rossi dal pianto, lo guardava fisso fisso, quasi per leggergli nell'aspetto il segreto che la desolava.

      — Donde vieni? — domandò con accento represso, continuando a fissarlo.

      E visto ch'egli non rispondeva, riprese:

      — Lo so; vieni dalle Merlacchi: dài lezione a sua figlia, e non me n'hai detto niente. Perchè non me n'hai detto niente?

      — Ti ho mai parlato delle mie lezioni?

      Al tono secco della risposta, la signora Ghedini si levò da sedere e gli andò incontro, strizzandosi le mani dall'angoscia.

      — Eppure tu sapevi che questa lezione non avresti dovuta accettarla!

      — Per quale ragione?...

      — Perchè sapevi che avrebbe fatto gran dispiacere a me.

      — Non credevo. E poi, sono proprio in circostanze di rifiutar lezioni!

      — Io dunque non conto niente per te?

      — Molto; ma...

      — Sono gelosa, Fausto!

       — Di chi?

      — Della madre e della figlia; mi hanno parlato dì te come due innamorate... Sono gelosa!


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