Il Vino: Undici conferenze fatte nell'inverno dell'anno 1880. Autori vari
Dei; ma tale non è l'opinione di chi si finge nel XII secolo faccia la strana professione di fede contenuta in quei versi famosi:
Meum est propositum in taberna mori.
Vinum sit appositum morientis ori,
Ut dicant cum venerint angelorum chori
Deus sit propitius huic potatori[I-18].
Nel secolo seguente un cantico alla Vergine si trasforma in un cantico al vino[I-19]. Dei Goliardi, autori spesso di così fatte parodie, fu chi disse:
Magia credunt Juvenali
Quam doctrinae prophetali,
Vel Christi scientiae.
Deum dicunt esse Bacchum,
Et pro Marco legunt Flaccum,
Pro Paulo Virgilium.
Questa letteratura vinolenta darebbe da dire assai a chi volesse tenerle dietro. Ricorderò ancora i Miracles de saint Tortu, sotto il qual nome cabalistico s'intende appunto significato il vino[I-20]; il Martyre de saint Bacchus[I-21]; il Sermon fort joyeux de saint Raisin[I-22], questo del XVI secolo. Nel Martyre de saint Bacchus, il santo di cui si celebrano le gesta è figliuolo di una figliuola di Noè per nome Vigna. Nessun santo, vi si dice, ha in paradiso gloria pari alla sua; poi si narrano i miracoli operati da lui, e la passione, paragonata con quella di Cristo. In un luogo son questi versi:
Seigniez-vous et recommandez
A Dieu, et grâce demandez
A sains Bacchus si qu'il la face.
In un Dis de la Vigne di Giovanni da Douai, si paragonan le cure che si debbono alla vite con il culto dovuto a Dio.
A questa singolare letteratura potrebber servir di motto i due versi in che Margutte compendia la sua professione di fede:
Or queste son le mie virtù morale,
La gola e 'l bere, e 'l dado ch'io t'ho detto[I-23].
Così onorato nel medio evo, Bacco non decadde certo dall'antica sua gloria quando il Rinascimento ebbe ristorato nella fantasia, se non nella fede, il paganesimo. Quanti poeti non inneggiarono allora, come Maffeo Vegio, al più amato degli dei:
Bacche, pater vatum, suavissime Bacche Deorum![I-24].
Ma di ciò io non voglio parlare più a lungo; bensì vo' ricordare come nelle feste carnovalesche e nei Trionfi, che già solevano sfoggiare nelle nostre città, Bacco fece sempre gloriosa mostra di sè. Gli esempii soperchiano, e mi basta di citarne un pajo. Tutti conoscono il Trionfo di Bacco e d'Arianna composto da Lorenzo de' Medici: nel Carnovale del 1710 si fece con grande pompa in Ferrara una mascherata rappresentante il trionfo di Bacco. Quando nel 1498, per istigazione di Gerolamo Savonarola, si fece un solenne bruciamento delle vanità del carnevale, usci fuori una canzone, dove si finge che un cittadino dica a Carnovale che si fugge:
Dove è Giove Iuno e Marte,
Vener bella tanto adorna,
Bacco stolto con le corna,
Che solea cotanto aitarte?[I-25]
Terminerò di parlare di Bacco, della sua leggenda, e della lunga memoria che n'han serbato gli uomini, ricordando, come a lui, che aveva peregrinato già gloriosamente per tutta la terra conosciuta, si volle attribuire ancora la scoperta di paesi incogniti. Il felicissimo paese di Cuccagna fu da lui ritrovato, e un poeta, Quirico Rossi, celebrò co' versi il memorabile avvenimento[I-26]. Di ritorno dall'India, Bacco muove in traccia della fortunata regione, dove giunge coi suoi seguaci dopo aver lungamente errato pei mari. Permettete ch'io vi dia un'idea delle delizie di quella terra incomparabile riferendo tre ottave che sono degne veramente del loro soggetto:
Fiumi di burro a tutte le stagioni
Scorrendo vanno e dilagando i prati,
Dove nascon per erba i maccheroni,
E per ghiaia ravioli maritati;
Ed anitre e pollastri, oche e capponi
Di frittelle pasciuti e saginati,
Che penne avendo di lasagne intorno
Volano al quietissimo soggiorno.
Sorge un colle nomato ivi Bengodi
Dove di latte una fontana spiccia;
Ombra vi fan le viti in varii modi,
Altre erranti, altre avvinte di salsiccia,
Che mettono un salame a tutti i nodi
Ed in luogo di foglie han trippa riccia:
A concimar la vigna e il colle tutto
Quivi il lardo s'adopera e lo strutto.
Le quercie che del sol frangono il raggio,
Hanno per ghiande ritondetti gnochi,
I quali giù tornando nel formaggio
(Ch'altra sabbia non usasi in que' lochi),
invitano ciascuno a farne il saggio,
Nè v'ha mestier di guatteri e di cuochi,
Perchè d'un ventolino al caldo fiato
Tutto cotto ivi nasce e stagionato.
Ma lasciamo in disparte oramai Bacco e la sua interminabile leggenda, e volgiamoci, ch'è tempo, a Noè. Il patriarca contende al nume la gloria di avere inventato il vino; per questa invenzion capitale accade quello che per molt'altre invenzioni di minor conto, dove si veggono più pretendenti concorrere ad appropriarsene il vanto. Per non dar torto a nessuno diciamo che Bacco e Noè hanno tutt'a due inventato il vino senza sapere l'uno dell'altro.
Notiamo anzi tutto la somiglianza grandissima ch'è tra il Noè biblico e il babilonese Sisutro, ultimo dei dieci patriarchi antediluviani, secondo che riferisce Beroso. Altri dimostri, se può, che Sisutro fu il tipo su cui venne esemplato Noè; io mi contenterò di dire che al pari di Noè Sisutro costruisce un'arca e si salva in quella dalle acque del diluvio. Se non che qui ci troviamo in un mondo di finzioni smisuratamente aggrandite, se pure non è più giusto di dire che quelle della Bibbia furono, con deliberato proposito, ridotte a più piccole proporzioni. Certo si è che rimpicciolimenti così fatti s'avevano necessariamente a compiere sotto la preponderanza e l'oppression di Jeova. L'arca costruita da Sisustro è lunga cinque stadii e larga due, diciamo 945 per 370 metri. Se Noè campa 950 anni, Sisustro ne campa 64000[I-27]. Non ho bisogno di dire che figure simili a queste, di patriarchi o di semidei che si salvano da un diluvio in cui tutto il rimanente genere umano perisce, si trovano in molte mitologie[I-28].
Ho detto poc'anzi che nell'invenzione del vino il patriarca Noè ebbe coadiutore il diavolo: ecco che io mi faccio a provarlo recitandovi per intero una bella leggenda rabbinica quale si trova tradotta in un libro del prof. Levi[I-29].
«Curvo sul ferro, tutto