Il Vino: Undici conferenze fatte nell'inverno dell'anno 1880. Autori vari
Satana gli appare, e dice:
««Qual nuovo lavoro intraprendi? qual nuovo frutto speri tu di trarre dalle lavorate zolle?»»
««Pianto la vite»», risponde il patriarca.
««La vite? superba pianta! stupendo frutto! gioia e delizia degli uomini! Il tuo lavoro è grande: vuoi tu che aggiunga l'opera mia? il tuo lavoro diverrà perfetto»».
Il patriarca accetta.
Satana corre, afferra una mansueta pecora, la trascina, la sgozza, ne inaffia col dolce sangue le rotte zolle.
— Da questo avviene che colui il quale liba leggermente il licore della vite, è, come la pecora, d'animo mansueto, di pensieri benevoli e dolci. —
Noè guarda e sospira: Satana prosegue l'opera sua; afferra un leone, lo squarcia e dalle squarciate vene il sangue zampilla e scorre, e inonda le rotte zolle.
— Da questo avviene che colui il quale beve alquanto oltre l'usato, come leone si sente pieno di vigoria, e il sangue ribolle spumoso nelle vene, e gli spiriti s'inorgogliscono, e l'uomo grida: Chi è pari a me? —
Noè guarda e sbigottisce: Satana prosegue l'opera sua; colle impure mani ghermisce un porco, l'ammazza e insozza coll'impuro sangue le rotte zolle.
— Da questo avviene che colui il quale tracanna smoderatamente il sugo dell'uva, si ravvoltola in mezzo alle sozzure come porco in brago. —»
Questa leggenda immaginosa e significativa, di cui non sarebbe agevole rintracciare l'origine prima, ebbe più varianti. Secondo una versione arabica il primo a piantar la vite fu, non già Noè, ma Adamo, e il diavolo l'inaffiò col sangue di una scimmia, di un leone e di un porco[I-30]. A questo proposito non è fuor di luogo il dire che dai rabbini fu congetturato l'albero proibito fosse appunto la vite[I-31]. Una leggenda molto simile alla talmudica che avete udita testè riferisce il poeta arabico Damiri[I-32]. Finalmente in un vecchio libro francese, il Violier des histoires romaines, quella strana concimazione si attribuisce allo stesso Noè, che per suo mezzo cangia la vite selvaggia, o lambrusca, in vite domestica. Qui gli animali son quattro, cioè il leone, il porco, l'agnello, la scimmia[I-33]. È da credere che della leggenda talmudica sapessero qualche cosa quei cioncatori del Fausto del Goethe, i quali, là, nell'osteria di Auerbach, a Lipsia, cantano a squarciagola:
Provo il contento,
Provo il solazzo
Di cinquecento
Porci nel guazzo.
Ma piacciavi di considerare il progresso dei tempi. La sapienza dei rabbini paragonava l'uomo vinto dal vino ad un porco; ognuno di quei bravi compagni si paragona a dirittura a cinquecento porci.
Non deve far meraviglia che il diavolo, avendo avuto parte nella fabbricazione del vino, siasi servito poi del suo trovato per condur gli uomini alla perdizione. E quante storie terrifiche potrei ricordare a questo proposito! Se è vero, come in parecchi antichi prontuarii d'esempii ad uso dei predicatori si trova narrato, che una povera monaca, una volta, rimase ossessa per aver mangiato d'un cesto d'indivia in cui s'era appiattato il diavolo, quanto più frequente non dovette essere il caso di bevitori ostinati, che votando il bicchiere, si misero in corpo, senza saperlo, un infuso di Satanasso! Lutero racconta la storia di un asciugafiaschi, il quale per una sbornia vendette l'anima al diavolo, da cui fu poi debitamente strangolato[I-34]. Ma per non allungarla di troppo citerò un esempio solenne e conclusivo. In un fabliau francese si racconta che il diavolo, dopo aver lungamente tentato un romito senza poterne vincere la virtù, gli promise di volerlo oramai lasciare in pace, a patto che gli desse questa soddisfazione di commettere una sola volta un peccato, scegliendo tra il vino, la lussuria, l'omicidio. Il romito per liberarsi accetta, e sceglie il più picciol peccato del bere, pensando di poterne poi con poco far penitenza. Va a pranzo da un mugnajo suo vicino, e s'ubbriaca; rimasto solo con la moglie di costui, casca nel secondo peccato e finisce per uccidere il mugnaio da cui è sorpreso. Vero è che il diavolo non ottiene il suo scopo. Il romito si pente, va a Roma, si fa assolvere dal papa, e dopo asprissima penitenza, muore in concetto di santo[I-35].
Parlando del vino e delle sue origini noi ci siamo inaspettatamente trovato fra' piedi quel setoloso quadrupede, di cui è quasi vergogna pronunziare il nome, e che nulladimeno, forzatovi dall'argomento, io ho dovuto nominare più volte. Che direste voi se a questo proposito io vi svelassi un mistero zoologico di cui lo stesso Darwin, indagatore acutissimo delle origini delle specie, non ebbe nemmeno un sospetto? E in pari tempo vi sarebbe dimostrato ciò che io asseriva cominciando, cioè a dire che Noè fu di statura di giganti. Il mirabil caso è narrato dal cronista arabo Tabari[I-36].
Quando, essendosi già ritratte l'acque del diluvio, le coppie degli animali uscirono dall'arca per ripopolare la terra, due nuovi bruti si videro comparire tra quelle, il porco ed il gatto. Essi eran nati nell'arca, per opera di Noè. Ecco le cause e il modo della creazione. L'arca, ripiena di tanto gregge quanto il buon patriarca n'aveva raccolto, fu in breve ridotta a tale stato da disgradare al paragone le famose stalle di Augia. La famiglia del patriarca, non potendo più reggere allo schifo ed al lezzo, ricorse a lui perchè provvedesse in qualche maniera. Noè allora s'accostò all'elefante, e senza punto scomporsi gli passò la mano sul fil della schiena. Com'è, come non è, l'elefante mette al mondo il porco, il quale in men che non si dice prende la sua prima satolla spazzando l'arca d'ogni sozzura. Qualche tempo dopo si trova che l'arca è infestata da topi voraci che sciupano ogni cosa. La famiglia ricorre novamente a Noè, e Noè, fattosi presso al leone, gli passa una mano sul fil della schiena, e il leone starnuta, e caccia dal naso un gattino ghiribizzoso che in poco d'ora fa giustizia degli invasori.
Voi vedete che gli uomini debbono essere grati a Noè per molte ragioni. Senza di lui la mortadella di Bologna e lo zampone di Modena non sarebbero mai venuti al mondo, e il pasticcio di lepre sarebbe stato una cosa assai rara. Ma in particolar modo gli debbon esser grati gl'italiani, giacchè è più che certo che Noè, al paro di Bacco, venne in Italia, e vi diede principio a quell'antichissima italica civiltà d'onde poi venne fuori la gloria di Roma. E questo non lo dico già io, ma l'afferma nientemeno che Pierfrancesco Giambullari, il quale nel suo libro intitolato Origine della lingua fiorentina racconta tutta la storia per filo e per segno, che non c'è da aggiungere, nè da levare un ette[I-37]. Dovete dunque sapere che la lingua italiana deriva, per mezzo dell'etrusca, dall'aramea. Centott'anni dopo il diluvio, Noè, lasciati i monti dell'Armenia, dov'era approdato con l'arca, venne in Italia. E in fatti, uno degli antichissimi nomi dell'Italia è appunto Enotria, come dire paese del vino, e il Pelizzari, nel suo poemetto intitolato La Vigna, lo conferma dicendo:
Alla pianta gentil sacra a Lieo
Onor d'Italia, a cui d'Oenotria un tempo
Il nome aggiunse, ora il mio stile io volgo.
Noè, che parlava l'arameo, va ad abitare sul monte Gianicolo, e prende il nome di Giano, il quale si figura con due facce, per far intendere che Noè appartenne a due età, quella che precede e quella che segue il diluvio. Più tardi viene in Italia anche Saturno, e allora principia l'età dell'oro.
Ma qui cominciano le difficoltà, giacche molti pretendono che l'età dell'oro sia stata prima del diluvio, e che fin che durò, in fatto di bevande, gli uomini non conobbero che l'acqua fresca. Tanto è vero che Romolo Bertini, autorità di prim'ordine, dice in una sua poesia In biasimo del secol d'oro:
Se di mangiare e bere
Quel