La Patria lontana. Enrico Corradini

La Patria lontana - Enrico Corradini


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al Buondelmonti che non ne aveva afferrato bene il nome, spiegò che era un socialista rifugiatosi d'Italia nel Brasile al tempo di moti politici. Il Buondelmonti disse sorridendo:

      — Ora capisco perchè s'è allontanato così da me!

      Sopraggiunse Quirino Honorio do Amaral e col suo bell'impeto cordiale raccontò al Buondelmonti che aveva fatto annunziar il suo arrivo da tutti i giornali e dar notizie di lui e delle sue opere. Sopraggiunsero gl'invitati di San Paolo. Erano otto o dieci italiani d'ogni regione d'Italia dalla Lombardia alla Sicilia, uomini d'affari arricchitisi con strenua operosità. C'erano tre grandi importatori di prodotti europei, un banchiere, grandi negozianti e padroni di fabbriche tra le primissime di laggiù nel loro genere. Questi col Berènga costruttore e col Tanno padrone di officine e con pochi altri di Rio de Janeiro erano il fiore della colonia e dell'emigrazione italiana, nel Brasile. E il Buondelmonti, mentre stavano pranzando, li guardava, tutti quelli uomini della sua stessa patria raccolti con lui in cima a quel colle lontano dalla patria tante migliaia di miglia; li guardava a uno a uno attraverso la tavola sfarzosa, i fiori e il cristallame sfavillante sotto uno sfolgorio di troppa luce. Aveva accanto a sè Giorgio Tanno e davanti un giovane della Basilicata, di nome Pasquale Mùrola, il quale per amore della patria lasciata nell'infanzia si nutriva la mente di letture italiane, e perciò insieme col fratello aveva fatto al Buondelmonti gran festa sin dal primo incontro sull'«Atlantide», perchè sapeva chi era e quanto valeva. Ora il Mùrola parlava con un importatore di San Paolo che gli sedeva a destra, un siciliano con due occhi vivissimi in una faccia arguta e mobilissima, e il Buondelmonti capiva d'essere l'oggetto del loro discorso, perchè ogni tanto l'uno e l'altro davano un'occhiata di sfuggita verso di lui e sorridevano cordialmente. Fra gl'italiani di San Paolo e quelli di Rio de Janeiro c'era un fervore di conversazioni più forte che non fra conoscenti ed amici i quali si ritrovino dopo lungo tempo e abbiano molte cose da raccontarsi; pareva al Buondelmonti che ritrovandosi gli uni con gli altri, quelli italiani, provassero la gioia di rimpatriare. Gli occhi dell'importatore siciliano, altri occhi italiani, intelligenti e penetranti, scintillavano; squillavano le voci di tutte le stirpi italiane, de' liguri, de' siciliani, de' veneti, de' calabri, de' toscani.

      Giorgio Tanno parlava all'orecchio del Buondelmonti d'un comitato della nobile società nazionale che prende nome da Dante Alighieri, fondato da lui e da' suoi amici a Rio de Janeiro pochi mesi prima. Parlava de' disegni che aveva formati per l'avvenire, sullo sviluppo da dare a quel comitato, e di alcune scuole da aggregarvi. Quando ad un tratto discostò dal Buondelmonti la faccia, e la cicatrice gli guizzò dallo zigomo fin sotto il negror della barba infocandosi. Gli occhi s'intorbidarono di ferocia e dalle labbra gli usciron queste parole:

      — Perchè io sono italiano!

      Poi con la palma aperta si percosse la cicatrice sulla gota e aggiunse:

      — Veda! Questo qui lo chiamano il segno di Menelik! Io ero a San Paolo quando l'Italia fece la guerra in Affrica. Ero venuto da poco nel Brasile. C'eran de' moti contro gl'italiani e si gridava viva Menelik! Una volta per una strada m'imbattei in gente che gridava così. Mi scagliai addosso a loro buscandomi una pugnalata qui. Ma uno fu ammazzato da me.

      Improvvisamente una voce squillò poco discosto dal Buondelmonti:

       — L'Italia è costretta a fare una politica estera vile e la colpa principale è vostra!

      E un giovane magro e lungo con un volto magro e lungo si levò scagliandosi contro il socialista Giacomo Rummo. Il quale ribattè:

      — La colpa è della borghesia.

      Ma l'altro senza dargli ascolto seguitò:

      — Bisogna pensare che la lotta di classe si fa in casa, ma fuori c'è la lotta delle nazioni; e a questo voi socialisti non avete mai voluto pensare e avete ridotto tutto alla lotta di classe! Per egoismo di classe avete distrutto la nazione! Ora poi vorreste rovesciare il ministero perchè non parte in guerra contro l'Austria! Voi! Voi che avete sempre gridato contro gli armamenti! Fatemi il piacere!

      La voce del giovane magro e lungo, un giornalista italiano di San Paolo, squillava con un che di bleso. Il socialista senza batter ciglio ripetè:

      — La colpa è della borghesia. Noi socialisti abbiamo un solo dovere: fare la lotta di classe. Non altro! Toccava alla borghesia che ha il dominio della nazione, a fare una politica nazionale resistendoci e magari schiacciandoci. Noi gridavamo contro gli armamenti? Ma che s'armasse! Non ne ha avuto il coraggio. Ha avuto quel mezzo coraggio che è figliuolo della necessità e della paura: spendere quella quantità di milioni che bastava per far gridare i socialisti, non per mettere la nazione in buono stato di difesa. Cioè, far sì che le cosiddette spese improduttive fossero veramente spese e improduttive insieme. La colpa non è nostra. Stia pur certo che noi saremmo capaci di dare all'Italia una classe dominante più coraggiosa, più gagliarda, più intelligente.

      Il Buondelmonti ammirò il socialista e lo approvò dicendo:

      — Nel riprovare la borghesia sto con Lei.

      Il socialista fissò un momento il Buondelmonti e disse seccamente:

      — Tanto meglio.

      E si voltò dall'altra parte verso il giornalista che dava le ultime notizie sopra l'agitarsi delle potenze d'Europa, tra le altre l'Italia e l'Austria, che in quei giorni s'era fatto minaccioso per la vecchia pace.

      Ma dopo il pranzo il Buondelmonti s'accostò di nuovo al nemico che aveva trovato anche nel Brasile, perchè gl'ispirava simpatia e voleva addomesticarlo. Lo scorse in disparte, in piedi, che fumava tutto solo, gli s'accostò e gli disse riattaccando il discorso:

      — Non dubito davvero che loro socialisti sarebbero capaci di dare all'Italia una classe dominante più intelligente e più coraggiosa.

       Il Rummo, fronte a fronte, appuntava verso la faccia del Buondelmonti la barbetta rossigna e taceva. Teneva il braccio un po' discosto dal fianco e aveva il sigaro tra le dita che mandava su un fil di fumo. Il socialista fissò a lungo l'imperialista finchè senza levargli gli occhi di dosso gli disse:

      — Allora Lei ne morrebbe per la sua borghesia, vero?

      — No davvero! — ribattè l'altro. — No davvero! Io non ho spezzato mai una lancia per la borghesia e per gli interessi borghesi; ho spezzato tutte le mie lance per la nazione e per gli interessi nazionali; e se è apparso diversamente, è stato perchè un certo tempo, in buona fede, ho creduto che nella borghesia prima che altrove si potesse risvegliare una coscienza nazionale.

      Il Buondelmonti si tacque, si accostò ancora al Rummo e piano e con un sorriso di delicata seduzione gli domandò:

      — Non crede alla mia buona fede?

      A un tratto il solido e fermo uomo fu scomposto, perchè quella domanda voleva dire che il Buondelmonti teneva in gran conto la sua stima, e in lui la naturale vanità che è nel cuore d'ognuno, fu lusingata. Gli occhi che il Rummo non aveva mai levato dalla faccia del Buondelmonti, sbatterono un po', la barbetta a punta cadde giù e dalle labbra uscì:

      — Non ho mai dubitato della sua buona fede!

      Poi il Rummo rimase a viso basso come se si guardasse i piedi e dalla sua mano rimasta nello stesso atteggiamento continuava a venir su il fil di fumo. Da ultimo il Rummo rialzando il capo domandò:

      — Ha fatto buon viaggio?

      Il Buondelmonti rispose di sì e un sorriso fino gli errava ne' precordii.

      Parte degl'invitati eran rimasti nella sala da pranzo, parte s'erano sparsi sulla terrazza e per le altre stanze. Tutta la villa era piena di voci e chi passava per le vie del colle e giù nella valle, la vedeva ardere di lumi attraverso le finestre aperte nella caldissima notte. Il padrone di casa stava con altri sulla terrazza e tonava contro l'Argentina, perchè in quei giorni c'erano rumori di guerra tra quella potenza e il Brasile. A pochi alla volta gl'invitati venivano a salutarlo e ad accomiatarsi e tra gli altri venne il Buondelmonti, ma il padrone di casa lo trattenne per la mano ed esclamò:

      — Quando sarà in Italia, lo gridi forte che il Brasile è un grande paese e che ha un immenso avvenire! L'Argentina no!

      


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