Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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con la sua frase di sarcasmo, aveva quasi elevata una barriera dinanzi ad ognuno di essi. Se non loro tre, chi era stato?

      De Vincenzi si scosse.

      «Occorre agire. E io solo posso farlo,» disse con voce ferma.

      Poi guardò in volto i tre ed aggiunse:

      «Per voi non c’è altro da fare. La mia convinzione personale non ha valore. Io credo alle parole che mi avete dette, ma questo non può impedire che il giudice proceda contro di voi. E, se non si trova il vero colpevole, nessuno di voi tre ha molta speranza di potersela cavare.»

      Aurigi lo interruppe, accentuando ancor più la smorfia della bocca, in un sorriso che metteva paura:

      «Oh!… Se ti affanni per me, puoi risparmiarti la pena. Niente più ha importanza per me, ormai!…»

      Diede un’occhiata rapida a Maria Giovanna e concluse:

      «No, davvero. Tutto quel che può accadere non mi interessa!»

      De Vincenzi lo capiva benissimo, ma doveva reagire e lo fece quasi con violenza:

      «Eh! mio caro, non ci sei tu solo qua dentro! C’è lei, la signorina Maria Giovanna, che è compromessa quanto te. C’è suo padre. E c’è soprattutto l’interesse della giustizia umana, nella quale io credo e che questa volta debbo tutelare.»

      Fece una breve pausa e aggiunse freddamente:

      «Le tragedie d’anima divengono talvolta un lusso, che non ci si può consentire. Io debbo risolvere il problema e non ho tempo da perdere. E ho bisogno assoluto che tu, come gli altri, vi prestiate ad aiutarmi. E tu, Giannetto, lo farai.»

      Aurigi aveva ascoltato: fece un gesto vago.

      «Ebbene?» chiese con indifferenza.

      «Ebbene, voglio tentare di risolvere il problema, prima di questa sera. Forse, non ci riuscirò. Ma può anche darsi che il caso, nel quale credo, mi aiuti.»

      Si diresse alla porta di fondo e la spalancò di colpo. Giacomo si trovava in anticamera intento, nell’apparenza, a togliere la polvere dai mobili.

      Il commissario fece mostra di non badargli e andò al telefono.

      Chiamò la Procura del Re e si mise in comunicazione con il giudice incaricato dell’istruttoria.

      Non lo conosceva, se non di nome e di vista, ed in quanto al giudice non sapeva neppure chi fosse De Vincenzi o affettò di non saperlo, per quell’ostentata noncuranza con cui la magistratura inquirente tratta i funzionari di Polizia.

      Gli disse subito che tra un’ora sarebbe tornato «sul luogo del crimine».

      De Vincenzi dovette adoperare tutta la sua persuasione, perché acconsentisse a rimandare la visita alle sedici. «Per quell’ora,» gli promise, «avrò qualche novità.»

      L’altro era incredulo.

      «Novità di che genere? Così come le cose mi sono apparse stamane, tutto mi sembra tanto semplice e chiaro che non saprei proprio quale novità lei possa prepararmi.»

      De Vincenzi non voleva impegnarsi in modo esplicito e d’altra parte il giudice insisteva per avere qualche assicurazione formale.

      «Non mi è possibile spiegarmi al telefono, signor giudice!» finì per dirgli con una certa impazienza. «Le chiedo soltanto di lasciarmi mani libere fino alle sedici.»

      E il giudice, per quanto senza entusiasmo, rimandò il sopralluogo e gli interrogatori, ma proprio «per fargli cosa gradita».

      Quando riattaccò il ricevitore, De Vincenzi aveva il volto scuro.

      Quello lì non gli avrebbe certo perdonato né un errore, né un ritardo. Aveva la sua convinzione bell’è fatta ed era facile supporre quale fosse: doveva aver già pronto il mandato di cattura per Aurigi!…

      Si voltò e vide la schiena curva del cameriere, più che mai occupato a togliere la polvere dalla cassapanca.

      Lo fissò un istante e poi tornò rapidamente in salotto.

      Gli altri lo attendevano.

      L’ansia di Maria Giovanna e di Marchionni era evidente.

      Giannetto alzò appena la testa, quando De Vincenzi entrò, ed ebbe per lui uno sguardo stanco, scorato. Lo sguardo di un cane ferito, che guarda il padrone affannarsi a curarlo e che sa perfettamente quanto la fatica di lui sia inutile.

      «Almeno mi lasciassero crepare in pace!» diceva quello sguardo.

      Il commissario conosceva il dolore di lui ed evitò i suoi occhi.

      «Ho bisogno di qualche ora libera,» disse. «Occorre che possa muovermi a mio modo. Lei, conte, può tornare a casa con sua figlia. La prego di trovarsi di nuovo qui, in questa casa, alle quindici e trenta.»

      R

      Il conte s’inchinò.

      «Crede che riuscirà… A trovare l’assassino?»

      «Lo spero,» rispose il commissario.

      Maria Giovanna seguì il padre, che si era diretto verso l’uscio d’ingresso, ma, quando fu sulla soglia del salotto, tornò rapidamente indietro.

      «Mi promette che non gli dirà nulla?» sussurrò con spasimo a De Vincenzi.

      «Le prometto che non gli dirò niente di inutile,» rispose evasivamente costui.

      La spinse dolcemente verso l’uscita e, quando fu sulla porta, la avvertì:

      «Non tenti neppure di vederlo, fino alle quattro. I miei agenti glielo impedirebbero.»

      E la giovane scese le scale a capo chino, come schiacciata da un peso enorme.

      «Tu rimani qui,» disse De Vincenzi a Giannetto. «Debbo lasciare un agente nella casa, naturalmente.»

      Aurigi abbozzò un segno d’indifferenza col capo.

      Il commissario fece entrare l’agente, che era di guardia sul pianerottolo.

      Gli parlò a bassa voce, dopo averlo condotto nel salottino di cui aveva richiusa la porta. L’agente lo ascoltò attentamente. Ogni tanto mormorava:

      «Ho capito, dottore!»

      Ma in realtà doveva aver capito poco o nulla, perché le parole di De Vincenzi avevano l’evidente effetto di riempirlo di stupore.

      «Allora, lei crede?…» domandò con esitazione, quando il suo superiore ebbe terminato.

      «Non credo nulla!» gli rispose freddamente il commissario. «E ti prego di non credere nulla neppure tu!…»

      Uscì in fretta. Fece mostra di scendere le scale e, quando fu sicuro che l’agente aveva chiuso l’uscio, risalì rapidamente fino all’ultimo piano.

      Remigio gli aprì la porta e lo fece entrare.

      Aveva un sorriso triste e rassegnato sulle labbra.

      «S’accomodi,» disse. «Immaginavo che sarebbe tornato molto presto. E così? Ha saputo?»

      Il commissario non rispose.

      Sedette davanti al tavolo e l’altro gli sedette di fronte.

      Si guardarono qualche istante.

      «Un bel ragazzo!» pensò De Vincenzi. E forse non meritava tutto quello che gli stava capitando addosso. E perché poi proprio come suo padre? Anche lui lo stesso destino! C’era da credere che non solo gli individui, ma le famiglie fossero segnate… Una generazione dopo l’altra… Quel che era avvenuto vent’anni prima si ripeteva; ma questa volta con la piccola complicazione di un cadavere tra i piedi!

      «Perché non mi ha detto che ieri notte è uscito?» chiese di colpo il commissario, fissandolo con acutezza e battendo


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