Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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      Sembrava che De Vincenzi avesse voluto reagire a se stesso, prendendo una risoluzione definitiva.

      «Dunque, lei non vuol dirmi altro?»

      «Ma che cosa potrei dirle?»

      Il commissario era sull’uscio. Chiese con indifferenza:

      «Quando ha veduto per l’ultima volta Maria Giovanna?»

      Remigio, colto di sorpresa balbettò:

      «Ieri…»

      «Nel pomeriggio?»

      «Già…»

      «A che ora?»

      «Saranno state le cinque… Le cinque e mezzo… Non so…»

      «Dove?»

      L’esitazione del giovane si mutò in evidente imbarazzo.

      Mormorò:

      «Ma perché… Perché vuol sapere proprio da me?» e l’accento della sua preghiera era penoso.

      De Vincenzi continuava a rimanere sull’uscio. Lo sbarrava con la sua persona.

      «Glielo dico io, quando l’ha veduta. Saranno state le cinque ed usciva da questa casa quasi correndo…»

      «Se lo sa!» fece l’altro.

      «L’ha veduta prendere un tassì?»

      «Sì.»

      «E lei l’ha seguita!» batté incisiva la voce del commissario.

      Ma Altieri gridò:

      «No! no! Non l’ho fatto! Questo non l’ho fatto!»

      E, stremato, con i nervi doloranti, senza più forza e controllo, scoppiò in un pianto convulso. De Vincenzi chiuse la porta e scese le scale.

      R

      In Questura, De Vincenzi trovò Cruni, che lo aspettava.

      «Ho fatto tutto quello che lei mi ha ordinato, dottore», gli disse il brigadiere, avvicinandoglisi. Aveva l’aria trionfante.

      Il commissario lo guardò.

      «Il Conte Marchionni non è andato, ieri notte, né al Clubino, né al Savini…»

      «E poi?» chiese il commissario De Vincenzi con indifferenza.

      Cruni ebbe un gesto di stupore. Dopo tutte le raccomandazioni che gli aveva fatte, non si rendeva ragione di quell’indifferenza.

      «Oh! sono stato prudente, non dubiti. Ma al Clubino ogni socio deve metter la firma sul registro, quando entra e quando esce, e mi è stato facile consultare il libro, senza neppur dirne la ragione al portiere. E in quanto al Savini, tutti i camerieri conoscono il conte e mi è bastato interrogarli con l’aria di nulla, per apprendere la verità…»

      «E poi?…»

      «Ah! vuol sapere quando è rientrato al palazzo?… Saranno state le due. È tornato in tassì, assieme a sua figlia… La signorina sembrava sofferente, mi ha detto il portinaio, che mi sono lavorato a dovere, sa?!… Quello non parlerà di certo… Così rimane assodato che il conte ha mentito…»

      «Lo so,» disse con noncuranza De Vincenzi, andando a sedersi al suo tavolo.

      «Lo sa?» esclamò il brigadiere con gli occhi spalancati. «Allora, io…»

      «Tu hai fatto egregiamente il tuo dovere, caro Cruni. E ti ringrazio. Soltanto, adesso, questa è storia vecchia! I fatti precipitano, amico mio!…»

      «Ha trovato?»

      «Non ho trovato niente!»

      Muoveva le carte. Gli capitarono fra le mani i due volumi, che stava leggendo la notte prima, quando in quella stanza era entrato Aurigi e sospirò… Ah! potersene tornare ai suoi libri! Non occuparsi più di delitti e di reati! Adesso, capiva le parole di Maccari. Anche lui, come Maccari, in quel momento, avrebbe voluto ritirarsi in campagna… Ma almeno Maccari aveva fatto presto a liberarsi dall’ossessione di quell’orribile storia. Lui, invece, non poteva, non doveva.

      Pensò a Giannetto, a Maria Giovanna, a quell’altro disgraziato, che piangeva lassù nella camera dell’ultimo piano!

      Sentì di nuovo alle orecchie la voce ironica del giudice istruttore:

      «Quali novità vuole avere, lei?»

      Infatti, quali novità aveva e che cosa gli avrebbe detto, tra poco, alle quattro?

      Guardò l’orologio. Erano le due. Aveva mangiato un boccone in fretta. Era stato al Monumentale. Aveva saputo che il proiettile che aveva ucciso Garlini era uscito proprio dalla rivoltella trovata nel cassetto chiuso del mobile. Si toccò le tasche del pastrano e sentì la forma delle due rivoltelle. Una per tasca. Avrebbe dovuto depositarle nel suo ufficio, tra i corpi di reato: il bastoncino di rosso per le labbra, la fialetta del veleno, la lettera di Aurigi, la ricevuta di Garlini, il mezzo biglietto della poltrona della Scala.

      Tutto in tasca aveva, invece.

      Bah! tra poco avrebbe consegnato quegli oggetti al giudice istruttore, dicendogli:

      «Se la sbrighi lei!»

      E il giudice se la sarebbe sbrigata facilmente, facendo arrestare Aurigi!

      Sospirò!

      Cruni lo guardava.

      «Eh! amico mio!…» mormorò, il commissario, tanto per dire qualche cosa.

      «Il Questore ha chiesto di lei,» mormorò timidamente il brigadiere.

      De Vincenzi alzò le spalle.

      Guardava il calendario. Ancora quegli stessi due numeri rossi, che aveva indicati a Giannetto, per obbligarlo a confessare la perdita fatta in Borsa. Rivide, per una strana associazione d’idee, la Banca di Garlini, il cassiere rossigno e apoplettico, che gli diceva, con un pacco di fogli da mille nelle mani:

      «Li ho presi davanti a lui… Vede? Erano cento e adesso sono ottanta… Vuol contarli?»

      Ebbe un sobbalzo. Come aveva fatto a trascurare quell’indizio? Si calcò il cappello. S’era raddrizzato, lo sguardo gli brillava.

      «Vieni con me,» ordinò a Cruni.

      Il brigadiere si mise in fretta il soprabito e prese il cappello.

      «Tu sai dove abita Garlini?»

      «In via Leopardi…»

      «Presto!…»

      Subito fuori del grande portone, sulla piazza, si gettò in un tassì. Un collega lo salutò e lui non lo vide neppure.

      «Via Leopardi!» gridò all’autista.

      Dopo dieci minuti, scendeva con Cruni davanti al portone di Garlini.

      Trovò una vecchia governante, che, appena lo vide e seppe chi era, cominciò a lacrimare e a soffiarsi il naso.

      Lui la interrogò in fretta, senza molti complimenti.

      No, il signore, la sera prima, non era tornato a casa per il pranzo. No, lei non lo aveva più visto dall’ora della colazione. Dove metteva i denari? Gl’indicò una piccola cassaforte. Molti valori soleva tenervi? No, pochi. L’indispensabile per le spese di casa.

      De Vincenzi si ricordò di avere in tasca il piccolo mazzo di chiavi trovato nelle tasche del morto. Vi era quella della cassaforte, naturalmente. Una cassaforte semplice, senza cifra. L’aprì e non vi trovò che buste, documenti, un migliaio di lire, qualche pacco di lettere di donna, legate con nastrini colorati.

      Eppure, Garlini era uscito dalla Banca con ventimila lire


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