Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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l’unico modo!

      E ordinò al cameriere:

      «Riprenderemo più tardi il discorso. Adesso, andate ad aprire, piuttosto…»

      Come se avesse compreso che il commissario gli stava tendendo un tranello, l’uomo esitò. Ebbe un gesto. Guardò di nuovo attorno a sé e poi, senza affrettarsi, si diresse verso la sala d’ingresso.

      Marchionni strinse i pugni e fece per seguirlo:

      «Ma che cosa fate? È lui il colpevole. Fuggirà.»

      De Vincenzi fermò il conte con un gesto brusco. Lo inchiodò quasi materialmente al suo posto con lo sguardo.

      Giacomo, intanto, aveva aperta la porta e si era tratto da parte, per far entrare il giudice istruttore, seguito dal cancelliere. Poi richiuse la porta ed entrò nella sua stanza.

      Il giudice istruttore avanzava rapido e sorridente. Era un uomo di una trentina d’anni, con un volto comune, un aspetto comune. Aveva gli occhiali sul naso e, poiché essi ogni tanto gli scivolavano, lui, con un movimento rapido, meccanico, da sembrare un tic nervoso, li riconduceva al loro posto.

      Appena entrato nella sala, guardò in volto quei tre uomini e vide appena Maria Giovanna, che non s’era alzata dal divano.

      «Il commissario?» chiese in giro.

      De Vincenzi s’inchinò.

      «Ai suoi ordini, signor giudice…»

      «Ebbene? Abbiamo proceduto? Mi sembra un delitto di facile soluzione, vero? E poi…» aggiunse con ironia, «lei avrà certo le novità, che mi ha preannunciate!»

      Accomodandosi gli occhiali, guardò il conte e Maria Giovanna, che, scossasi dal torpore, si era sollevata sulla persona e che si alzò lentamente.

      «E questi signori?»

      «Il conte Marchionni e sua figlia», presentò De Vincenzi:

      R

      «Testimoni?» chiese il giudice, stringendo la mano al conte.

      Il commissario assunse una leggera aria di trionfo.

      «Credo che si possa fare a meno anche di loro…»

      «Ah!» fece il giudice, fissandolo.

      Poi mormorando: bene, bene, si diresse verso il tavolo e sedette, facendo cenno al cancelliere di sedergli accanto.

      Il cancelliere tolse da una busta di pelle alcune carte e le dispose sul tavolo.

      De Vincenzi si era messo in modo da poter osservare la sala d’ingresso. Era soprattutto alla porta della stanza del domestico, che teneva gli occhi fissi. Se i suoi calcoli erano giusti, adesso si sarebbe dovuto produrre il fatto decisivo. Ma intanto gli occorreva acquistar tempo, nell’attesa.

      E parlò.

      «Un delitto volgare, meravigliosamente concepito ed eseguito. I francesi chiamano i delitti di tal genere: crapuleux... Ma questo ha caratteri particolarmente intelligenti. Ha avuto per scopo il furto… Furto volgare di denaro…»

      A queste parole, Marchionni e Giannetto, che sapevano come si fossero trovate cinquecento lire nel portafogli di Garlini, ebbero un gesto di meraviglia.

      De Vincenzi, pur tenendo sempre d’occhio la sala d’ingresso, notò quel gesto ed ebbe un sorriso.

      «Questa mattina, prima di venir qui,» disse rivolto ad Aurigi, «ho passeggiato anch’io e in piazza Cordusio mi sono fermato alla Banca Garlini. Ho interrogato gli impiegati della Banca e ho saputo che ieri sera Garlini aveva preso dalla cassaforte ventimila lire e se le era messe in tasca. Poiché ho potuto constatare che in casa sua quel denaro non c’è, è evidente che egli doveva averlo con sé, ieri sera.»

      Si volse di nuovo al giudice.

      «Questa sicurezza, mi ha permesso di escludere il movente passionale, per ammettere invece quello volgare. Certo… Sul principio, chiunque avrebbe seguita la pista della ricevuta del mezzo milione… e avrebbe commesso un errore irreparabile. Ma, se l’aver lasciate nel portafogli cinquecento lire è stato un tratto geniale, capace di fuorviare le ricerche al principio, esso rientra nel quadro generale della premeditazione e dell’accurata sottile preparazione. Non soltanto il ladro ha ucciso; ma ha ucciso, tendendo una così salda rete di indizi contro altre persone, che sospettare di lui sarebbe stato impossibile… se le pendole non avessero per compito di battere le ore e se io non avessi contati i colpi di quella pendola…»

      Indicò col dito la pendola sul caminetto, che segnava adesso le sedici.

      «Vede, signor giudice? Le sedici, mentre sono le quindici. E ieri segnava le undici, quando erano le dieci… Le undici meno una…

      Fece una pausa. L’anticamera era sempre vuota. Si sarebbe ingannato? Per un momento temette che Giacomo fosse uscito da un’altra porta, ma si disse che era impossibile. L’appartamento era stato visitato in ogni parte. E in quanto alle finestre, non si poteva neppure pensare che un uomo facesse un salto di una ventina di metri.

      «Vuole,» signor giudice, «gli elementi di fatto dai quali può dedurre in questo momento l’accusa, per ordinare l’arresto del colpevole e per procedere a cuor sereno alla sua incriminazione?»

      «Non chiedo altro!» disse il giudice, che non capiva tutta quella loquacità del commissario.

      «Eccoli: una pendola messa avanti di un’ora: una rivoltella chiusa in un cassetto; l’ammissione spontanea e non richiesta del presunto colpevole di aver ascoltato un colloquio svoltosi in questa stanza nel pomeriggio di ieri: una telefonata fatta al Commissariato Duomo, per far scoprire l’assassino al più presto e comunque durante la notte, ed infine alcune impronte digitali, che potranno rivelarci molto, ma che potrebbero anche non rivelarci nulla!»

      Tutti così! pensava tra sé il giudice. Tutti chiacchieroni, presuntuosi, sicuri di se stessi, questi benedetti commissari. Loro indagano, scoprono e non forniscono mai prove sicure e chi poi si trova nei guai è il povero giudice!

      «Vedo, vedo!…» mormorò accomodandosi gli occhiali sul naso.

      R

      Non vedeva nulla, lui!

      «Bene, bene!… Ma finora indizi, abilmente messi in valore; ma soltanto indizi. Nessuna confessione! E, se lei si sbagliasse, caro commissario? Se seguisse le orme ingannevoli di una fantasia giovanilmente ricca, per abbandonare quelle più sode della realtà? A me sembra, invece, che l’assassino, se leggiamo il nome scritto su questa porta, i bilanci della Banca, se esaminiamo la vita del morto e del presunto uccisore, ha… per così dire, firmato il proprio delitto!»

      Giannetto non si era turbato. Sapeva troppo bene, lui, che le prove erano lì, chiare e lampanti, ad accusarlo. Ma davvero avrebbe preferito che tutto quel martirio finisse una buona volta e che lo accusassero, lo condannassero. Non poteva pensare di riprendere l’esistenza di prima, adesso che si sentiva l’anima smarrita e il cuore a pezzi.

      «Infatti!» rispose De Vincenzi al giudice, chinando la testa.

      Da qualche istante, si sentiva meno sicuro di se stesso. Quello che aveva preveduto non accadeva. Se realmente lui si fosse ingannato? Se tutti gli indizi avessero parlato contro il cameriere, come avevano parlato contro gli altri, vale a dire, per volontà del caso, contro un innocente?

      Sapeva troppo bene, il commissario, che si stava giocando la posizione e la carriera. Quell’ometto magro, con gli occhiali che non stavano mai fermi, doveva essere molto tenace nelle sue idee. Come convincerlo, lui?

      E fissava la sala d’ingresso, la porta della camera del domestico, con tutta l’anima negli occhi.

      Ad un tratto il volto gli si illuminò.

      Sulla porta aveva veduto comparire Giacomo e il cameriere aveva il pastrano in dosso e il cappello in mano. Si guardava attorno ed esitava.

      Subito De Vincenzi si


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