Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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consenso. Il che voleva dire per lui rinunciare anche alla speranza di un matrimonio ricco per Maria Giovanna e al sogno di ricostruire con i denari di un ipotetico genero, la fortuna della sua casa.

      Aveva venduto il palazzo e, pagati tutti i creditori, gli era ancora rimasta la piccola rendita di una terra nel Comasco, dove si era ritirato a fare il gentiluomo di campagna, in solitudine, con sua moglie e sua figlia.

      E adesso Maria Giovanna s’era sposata.

      Remigio Altieri era entrato in un giornale come redattore: il giovanotto aveva ingegno, buona volontà, dirittura. Si sarebbe fatta una posizione.

      Erano felici.

      Gli avevano mandata la partecipazione e sul cartoncino bianco, in mezzo al quale si leggevano soltanto i nomi degli sposi – un matrimonio semplice e quasi clandestino, perché il vecchio conte aveva sognato ben altro e non era ancora riuscito a dimenticare completamente i propri sogni! – Maria Giovanna aveva scritto di suo pugno:

      «Al nostro buon amico e salvatore, con tanta affettuosa riconoscenza

      Quei due oramai erano a posto!

      E De Vincenzi sorrideva.

      Tutti i drammi umani, per terribili che siano, si chiudono sempre con un segno di vita rinnovata. Con una rinascita. Non è, forse, dalla morte, che germina la vita? Persino il cipresso è un albero verde!

      De Vincenzi pensava a tutto questo e si attardava, quasi con ostinazione, sul ricordo di quei due giovani, immaginandoseli nella loro conquistata felicità, vedendoli davanti a sé; perché non voleva pensare al triste eroe di quel dramma, al suo amico d’infanzia…

      Chiuso l’appartamento di via Monforte, che aveva in seguito lasciato libero, vendendone tutti i mobili, Giannetto Aurigi se ne era andato.

      Dove?

      De Vincenzi non lo sapeva e ne soffriva.

      Per Aurigi il colpo era stato forte.

      Uno di quei dolori che spezzano qualcosa nel cuore irrimediabilmente. Che mostrano un lato atroce dell’esistenza umana, non mai prima conosciuto. Tanto più forte, quanto più Giannetto stesso, forse, non sapeva di amare la sua fidanzata così profondamente come l’amava.

      De Vincenzi lo aveva cercato e fatto cercare dovunque.

      Forse, era andato all’estero. Chissà dove. E non ne avrebbe avute più notizie.

      O invece lo avrebbe riveduto fra qualche anno, mutato, invecchiato sia pure, ma risanato, comparirgli davanti grassoccio, appesantito, a dirgli con un sorriso:

      «Chi si ricorda più di nulla, amico mio! Il mondo è pieno di donne di ogni specie e belle quanto vuoi e pronte ad amarti!»

      Purché invece non si fosse perduto con le donne, in una vita di abiezione morale e di orgie abbrutenti…

      In quel punto bussarono alla porta e De Vincenzi ebbe uno scatto d’impazienza.

      Ma subito pensò: servirà a distrarmi…

      Riponendo il volume, che aveva sul tavolo, nel cassetto, con un gesto ch’egli non dimenticava mai di compiere e che ricordava quello degli scolari all’improvviso avvicinarsi del maestro, disse:

      «Avanti!»

      Sulla soglia comparve Giannetto Aurigi.

      «Ah!» fece De Vincenzi, quasi non credendo ai suoi occhi. «Tu! E da dove sbuchi?»

      Giannetto aveva il volto grave, ma appariva sereno e tranquillo.

      Avanzò lentamente, senza rispondere. Depose il cappello e il bastone su di una seggiola e sedette davanti all’amico, che si era alzato e lo guardava.

      «Sono venuto a salutarti, amico mio. Potevi, ben comprendere che non sarei scomparso, senza dir nulla a te, a cui debbo quasi la vita!… Domani parto.»

      «Ma non sei già partito?!» chiese De Vincenzi con comica meraviglia. «Oh! Dove sei stato per due mesi?»

      «A Milano,» rispose l’altro. «Soltanto non avevo desiderio di vedere nessuno. Sono passato attraverso una crisi profonda! Avrei potuto smarrirmi per sempre. Ho creduto di perdere la ragione. La vita non aveva più scopo per me. Mi dicevo: perché non farla finita? Tu capisci che, con questi pensieri per il capo, non avevo davvero voglia di farmi vedere in giro, di cercare gli amici, di conversare con nessuno…»

      De Vincenzi ascoltava.

      Lui parlava con voce pacata. Anche quelle parole di disperazione le pronunciava con ponderatezza, riflettendo. Ed erano lontane da lui, non gli appartenevano più. S’indovinava ch’egli ormai aveva superato quello stato d’animo, che poteva descrivere appunto perché non era più il suo.

      «Ebbene?» chiese il commissario, dopo un silenzio. «Adesso?»

      «Oh!» fece Giannetto, con un sorriso. «Adesso, è passata. Domani parto. Sai dove vado?» L’altro si strinse nelle spalle.

      «Vado in Abissinia. Tu sai che sono tenente d’artiglieria, come te, del resto. Abbiamo fatta la guerra assieme. Ebbene, ho presentata la domanda di tornare nel servizio attivo e di andare in Colonia. L’hanno accolta. E domani, a Genova, m’imbarco.

      Si alzò e tese la mano a De Vincenzi.

      «Addio, amico buono e provato!… Spero che adesso tu non debba più pentirti di avermi salvato da un brutto passo…»

      Si abbracciarono.

      Quando Giannetto se ne fu andato. De Vincenzi si accorse di aver gli occhi umidi.

      7

      1936

      «Prego consegnare alla Questura»

      Era rimasto a contemplare l’involto, che giaceva sui gradini della chiesa.

      Le prime luci dell’alba illuminavano la piazzetta deserta. Sotto l’androne, che metteva in un cortile aperto, si vedeva il chiarore della lampada accesa davanti all’immagine della Madonna. Qualche minuto prima, tutte le luci delle strade si erano spente di colpo. L’aria era piena di brividi.

      Un nuovo giorno nasceva così sulla grande città, che ancora rimaneva immobile, come estatica. Soltanto il rumore di qualche tranvai in lontananza, sul corso Vittorio Emanuele, e, dall’altra parte, per via Cavallotti.

      L’uomo in uniforme grigia, filettata di rosso, guardava l’involto.

      Dovevano essere stracci ravvolti in un giornale. Eppure quel pacco appariva troppo accuratamente confezionato, per contenere stracci.

      Gli diede un colpo con la scopa e l’involto rotolò pei gradini sul selciato. Non si aprì. Doveva essere fermato ai due capi con qualche spillo, perché legato non era. Ma dal centro di esso, di sotto al margine del giornale, sbucava una busta bianca.

      Lo spazzino si chinò a raccoglierla. Era aperta. Conteneva un foglio piegato in quattro. E sul foglio una sola riga di una scrittura grande e affrettata, a inchiostro azzurro «Prego consegnare alla Questura».

      Ai suoi occhi, adesso, il pacco aveva acquistato importanza. Lo guardò con rispetto. E anche un poco con spavento. Qualunque cosa fosse stata ravvolta in quel giornale, una ce n’era di certo per lui, che lo aveva trovato: il fastidio di andare a San Fedele a consegnarlo e poi anche, forse, quello più grosso di tornarvi, di subire interrogatori, di dar spiegazioni, di doverle ripetere in Tribunale o alle Assisi, magari. Conosceva quelle cose! Una volta aveva raccolto un pacco di biglietti falsi e aveva dovuto maledire i falsari di tutto il mondo.

      Tutte a lui capitavano! In venti anni che faceva lo spazzino municipale, per terra non aveva trovato che noie e immondizie, immondizie e noie.

      Si


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