Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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Tutto quanto lei dice è la pura ragione, che lo afferma. Il nome sulla porta… i bilanci della Banca… La vita del morto… Soprattutto l’esistenza condotta negli ultimi mesi dal presunto uccisore… Tanti fatti, tante prove… Ma vede, signor giudice, talvolta i fatti ingannano e le prove mentono… Che cosa occorre, perché si abbia la certezza? Sì, che cosa occorre?»

      Sentì i passi avvicinarsi all’uscio d’ingresso sentì quell’uscio cigolare sui cardini lentissimamente; percepì il leggero scrocco della serratura, che scattava, per rinchiudersi.

      Mandò un sospiro di sollievo e parlò con voce mutata.

      «Ma la realtà è questa, signor giudice: che un assassino non firma mai il proprio delitto.»

      Con accento di trionfo continuò:

      «No, signor giudice, un assassino non firma mai il suo delitto, mentre talvolta firma la sua confessione. E il nostro assassino ha confessato!»

      Il giudice sobbalzò in modo tale, che questa volta gli occhiali gli caddero sul tavolo.

      Strizzando gli occhi miopi, si protese verso il commissario.

      «Ah! Ha confessato! Ha detto proprio così, lei? Ma se poco fa diceva, invece…»

      «Poco fa non aveva confessato! Ha confessato in questo medesimo istante, fuggendo…»

      «Fuggendo?» urlò il giudice, alzandosi. «Ma che dice?»

      Si guardò attorno realmente spaventato. Nessuno di coloro che aveva trovati nella stanza si era mosso dal suo posto.

      «Chi è fuggito?»

      Con semplicità, quasi dicesse la cosa più naturale e più ovvia, il commissario rispose:

      «Giacomo Macchi, il cameriere, l’assassino…»

      Il giudice lo guardò con stupore.

      «Ma se è stato lui ad aprirmi la porta. Almeno, immagino che sia stato lui, perché l’uomo che l’ha aperta aveva tutto l’aspetto di un cameriere. Come sa che è fuggito, lei?»

      «L’ho visto fuggire… Da questo specchio…»

      E De Vincenzi indicò uno specchio appeso alla parete, dal quale si poteva vedere l’uscio d’ingresso.

      Adesso, il giudice trasecolava. Alzò le braccia al cielo.

      «Ah! Perbacco! E lei lo ha guardato fuggire e non s’è mosso?!… E che cosa aspetta, adesso, per farlo inseguire?»

      «Aspetto, che sia lontano… Che cerchi di nascondersi… Che firma in modo chiaro e lampante la sua confessione… Non avevo altro mezzo per farlo confessare, che questo: dargli la possibilità di fuggire! Lui è un abile furfante ma è caduto nel tranello, che gli ho teso. Non andrà molto lontano, non dubiti…»

      Guardava il giudice, che non riusciva a riacquistare i propri spiriti e quasi sorrise. Poi lo toccò dolcemente sul braccio.

      «Segga, invece, signor giudice… La prego, segga di nuovo…»

      Come dominato da quella sicurezza tranquilla, il giudice sedette. De Vincenzi gli si mise di fronte e riprese.

      «Ecco! Benissimo. Ora mi ascolti. Le esporrò il modo con cui Giacomo Macchi ha ucciso il banchiere Garlini.»

      Fece una pausa, evitò di guardarsi attorno, sapendo che dietro di lui vi erano tre anime in pena, alle quali ormai le sue parole non avrebbero potuto portar alcun sollievo, perché la tragedia l’avevano dentro di loro e non era soltanto quella del delitto commesso da altri. E poi continuò:

      «Che cos’è un delitto, signor giudice, quando esso non sia passionale? È un’opera artistica! Una opera perversamente, delinquenzialmente artistica! E per opera artistica m’intendo un componimento di fantasia, sobrio e conciso nella forma, equilibrato nei propri elementi costitutivi, serrato e logico, chiaro e armonioso, teso e vibrante. Orbene, nulla più del modo con cui questo delitto è stato concepito ed attuato può dirsi artisticamente perspicuo… Mi ascolti, signor giudice! Ecco l’antefatto: un groviglio d’interessi materiali e passionali fanno sì che almeno due persone desiderino ucciderne una terza. Una di queste due persone, ridotta all’estremo limite della disperazione, dice a se stessa e forse ad altri: «rovina per rovina, io lo uccido!» e dà un convegno alla terza, la vittima, in casa sua, per la mezzanotte… In questa casa, vale a dire, e per ieri notte. Questo convegno e lo stato di disperazione della persona di cui parliamo… Diciamo addirittura, signor giudice, di Giannetto Aurigi… Sono noti al suo cameriere, Giacomo Macchi. Questi è un delinquente, che ha avuto molti conti da spartire con la Giustizia. Egli è furbo e persino geniale. Sa che il proprio padrone è arrivato ad un punto, che può anche benissimo commettere un delitto, e pensa di poterlo prevenire, traendo ogni vantaggio per sé e facendo cadere tutti i sospetti su di lui… Mi segue, signor giudice? E, allora, cosa fa? Oh! Semplicemente questo! Sa che il padrone non porta mai orologio e, valendosi d’una tale conoscenza, che sembra insignificante e che è capitale, si appiatta, dopo aver messo per ogni buon conto la pendola di questa sala un’ora avanti. Egli pensa: se Aurigi ritorna prima e guarda la pendola, deve dirsi che è già trascorsa l’ora dell’appuntamento e che Garlini non verrà più… Così, l’assassino si affida al caso. Esso può favorirlo, facendo nuovamente uscire di casa Aurigi e allora lui avrà il campo libero… Ed è proprio questo, che è accaduto, signor giudice… Comprende, adesso?»

      E De Vincenzi continuò, lentamente, pacatamente, ad illustrare la ricostruzione, che aveva fatta del delitto.

      R

      Circa due mesi dopo quelle ventiquattro ore in cui si erano svolti i tragici avvenimenti, che abbiamo narrati, il commissario De Vincenzi si trovava nel suo ufficio di capo della Squadra Mobile, a San Fedele.

      Erano le dieci di sera. Di fronte, la città viveva giocondamente per le vie e per le piazze, nei ritrovi pubblici, il giovedì grasso di quel carnevale notevolmente più lungo degli altri anni.

      De Vincenzi, chiuso nella stanza squallida, davanti alla scrivania macchiata e bruciacchiata dai sigari e dalle sigarette, alle poltrone consunte, al telefono nero e lucente, sembrava leggere un giornale. Sotto il foglio, che teneva spiegato sulla scrivania, c’era un libro aperto.

      Aveva l’occhio fisso e vago. Uno strano sorriso gli illuminava appena appena il volto.

      Rivedeva una stanza linda, dai pochi mobili antichi e quasi preziosi, all’ultimo piano, sul corridoio, che conduceva alle camere dei domestici. Un giovanotto biondo, dagli occhi chiari e leali, dalla fronte ampia e luminosa, che lo invitava ad entrare con cortesia semplice e spontanea:

      «S’accomodi… Immaginavo che sarebbe tornato molto presto. E così? Ha saputo?»

      E poi quel giovanotto s’era messo a piangere, di un pianto convulso, agitato, rumoroso.

      Sicuro, pensava De Vincenzi, povero ragazzo! Le aveva passate le sue ore d’angoscia e, prima li aveva vissuti i suoi mesi e i suoi anni di dolore! Ma adesso, finalmente, era felice. Quella mattina di marzo, proprio di giovedì grasso, aveva sposata Maria Giovanna!

      Un po’, il merito di quella felicità ce l’aveva anche lui, De Vincenzi. E non soltanto perché aveva salvata Maria Giovanna dalla rovina di quel brutto delitto, liberando anche Giannetto Aurigi da ogni sospetto.

      Ma perché, la stessa sera di quel giorno in cui aveva finita la «sua conferenza» al giudice istruttore e aveva fatto arrestare l’assassino — che non avrebbe potuto andar molto lontano nella sua fuga, così pedinato com’era dal brigadiere Cruni — De Vincenzi aveva avuto un lungo colloquio col conte Marchionni.

      Un colloquio difficile.

      Il vecchio gentiluomo non sapeva nulla di quell’amore di sua figlia. Neppure la moglie aveva osato rivelarglielo. Sulle prime era scattato. Ma usciva da una prova troppo terribile, e sua figlia con lui, perché potesse irrigidirsi


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