La plebe, parte II. Bersezio Vittorio
cosa, Paolina, secondo quel che aveva detto, corse alla chiesa del Carmine, ed entrò diviata in sacristia. L'oscurità di quel luogo non era rotta che da un lucernino pendente da un braccio di ferro: un sacrestano sonnacchioso preparava sulla tavola della credenza i paramenti pel celebrante della messa, mentre un bambino, inginocchiato presso un largo braciere di ferro messo entro un recipiente di legno, ne smuoveva la semispenta carboncina e vi scaldava sopra le sue mani gonfie dai geloni.
Un alto silenzio regnava colà dentro, e si udiva soltanto il suono della campana che giusto allora dava i tocchi della prima messa.
Paolina si accostò un po' timorosa e titubante al sacrestano.
– Scusi, padre Celso: cominciò ella a dire, interrotta tosto da uno scoppio di quella sua tosse dolorosissima.
Il padre, a quel signor sacrestano che era un frate laico, poteva dirsi una piacenteria: ma Paolina voleva rendersi benevolo il fiero uomo, e sapeva che egli ci teneva maledettamente a quell'appellativo.
Padre Celso si volse con mossa solenne, e guardò con piglio altezzoso la povera donna che stavagli in aspetto supplichevole innanzi.
– Ah siete voi, Paolina. Ebbene, che cosa volete?
Quasi tutti gli uomini hanno un superbo concetto delle funzioni che sono incaricati d'esercitare, e nell'esercizio di esse quanto più sono basse, tanto più d'ordinario si mostrano orgogliosi. Andate a parlare ad un misero impiegatuzzo alla sua scrivania nel ministero; domandate ai coscritti che cosa sono i caporali che fan da capo di posto ad una guardia; entrate senza una particella nobiliare al vostro nome e senza l'aspetto d'un milionario nella anticamera d'un riccone ed affrontate l'impertinente sicumera dei lacchè in livrea; abbiate a che fare con uscieri, portinai, custodi e va dicendo, ed avrete i più notevoli esempi della sciocca superbia dell'uomo da nulla che si attribuisce appetto a voi una importanza che non ha; ma la impertinenza orgogliosa di tutti costoro che ho nominato è niente in paragone di quella d'un sacrestano. Hannovi le sue brave eccezioni, ci s'intende: ma il tipo dell'orgoglio impertinente e senza ragione bisogna andarlo a cercare sotto la cotta di solito bisunta d'uno spazzino di sacristia.
Il tono con cui un idalgo spagnuolo del seicento accoglieva un marrano era più cortese di quello che fosse il modo onde padre Celso parlava e sogguardava la povera Paolina.
– Vorrei parlare a padre Bonaventura: disse quest'essa tutto umile.
– Egli non è ancora disceso: rispose col medesimo accento di prima il villano vestito da frate. Discenderà a momenti, ma avrà altro da fare che dar retta a voi. Ha da dir la messa, e poi dopo andrà in confessionale.
Volse le spalle alla poveretta, e continuò la sua bisogna con quell'aria che potrebbe avere chi fosse in via di salvare il mondo.
Paolina si ricantucciò da una parte, e stette là, tutta abbrividendo, ad aspettare.
Poco stante, ecco entrare una vecchia che a primo vederla ciascuno avrebbe riconosciuta per una di quelle pitocche beghine che stanno tutto il giorno sulle porte delle chiese, negli anditi delle sacristie ad elemosinare biascicando pater ed ave e mormorazioni, spiando e divulgando gli affari della gente e facendo anche di peggio mestieri alla vista meravigliosa d'una moneta d'argento.
Costei diffatti, oltre la grinta bassamente ipocrita e furbescamente improntata di affettata divozione, che è propria di quella razza di donne, portava tra mano la vera insegna del suo mestiere, un mazzettino di piccoli candelotti di cera, avvolti dalla metà in giù in un pezzo di carta straccia di color bleu; al braccio aveva passato pel manico un veggio di terra cotta, e coll'altra mano si traeva dietro, mezzo riluttante, mezzo ancora addormentato, un ragazzo di circa dieci anni.
– Buon giorno, padre Celso: diss'ella, con accento della più profonda reverenza, al sacrestano. Lei sta bene? Ha dormito bene questa notte?
Il sacrestano si volse alla nuova venuta con un'aria d'affettuosa protezione che dinotava come costei fosse nelle grazie di quell'importante personaggio.
– Ah ah! siete voi, Gattona?
Ella era infatti quella donna, di cui Maurilio la sera innanzi aveva trovato per la via il nipotino piangente, e in casa della quale il principale dei protagonisti del nostro dramma si era fatto condurre dal piccino2.
– Me la non mi va male, peuh peuh!.. E voi?
– Eh! da povera vecchia… si sa bene; alla mia età, colle miserie che ci toccano a noi… Se non fosse di questi buoni Padri che mi soccorrono, sopratutto di quel sant'uomo di padre Bonaventura, per me la sarebbe bella e finita.
– Via, via: diceva col suo tono di protezione padre Celso. State di buon animo. Siete una brava donna, timorata di Dio, religiosa e dabbene. La Provvidenza e noi vi assisteremo come abbiam fatto fin adesso.
– Che Dio li benedica… Lei e tutti i buoni Padri di questo convento.
– Voi siete sempre fedele a questa prima messa, Gattona.
– Oh sì, e il giorno in cui non mi vedrà più venire potrà ben affermare che io sono moribonda o morta addirittura. Oggi intanto le ho menato qui Gognino in caso ne avesse bisogno per qualche cosa, e sopratutto per servir la messa, ch'egli da solo non è capace, ma per la parte di chi tramuta il libro, tanto e tanto incomincia a raccapezzarcisi.
– Sì, davvero? Oh bene, bene; è un principio. Se occorrerà, potrà servir da secondo qui a questo altro bardotto; ma credo che non ve ne sarà affatto bisogno, perchè oggi è il giorno in cui il signor Nariccia suole confessarsi; e in que' giorni ha per abitudine di servir egli la messa a padre Bonaventura.
– Come Dio vuole. Intanto ho appunto piacere di dire due parole a padre Bonaventura.
– Egli sarà qui a momenti… To', eccolo appunto.
Un uscio si aprì nell'impiallacciatura di legno scolpito e comparvero la persona grossa, la faccia rubiconda e la cotta nera di un frate gesuita.
In questa famosa, e per tanti titoli giustamente famosa compagnia, come tutti sanno, s'incontrano due tipi netti e distinti: l'uno è di frati ascetici, severi, entusiasti, fanatici; l'altro è di buontemponi, in apparenza tolleranti, allegri e sorridenti, che transigono su tante cose accessorie colle passioni dell'uomo e colle debolezze del mondo, purchè ottengano il principale – ed il principale per essi è la sottomissione alla Corte di Roma e la reverenza all'ordine loro. I primi si dirigono alle anime ardenti, agli spiriti eccessivi, a coloro che portano nella religione l'amor della lotta, quel po' di guerra civile che, come disse Massimo d'Azeglio, gl'Italiani hanno nel sangue; i secondi invece parlano alle anime tenere, ammorzano i rimorsi di peccatori convertiti che amano moltissimo il ricordo e qualche arrière-goût dei loro peccati, che nulla chiedono di meglio che far camminare di fronte con un sapiente equilibrio di pratiche religiose i loro piaceri, le soddisfazioni dei loro desiderii terreni, e la loro salute eterna.
Padre Bonaventura apparteneva alla schiera di questi ultimi. Una bella faccia di cuor contento, con labbra rosse sorridenti, guancie paffute e doppio mento. Aveva occhi chiari, limpidi e a fior di pelle che giravano vivacemente e sfuggivano molto bene lo sguardo altrui; la fronte piccola cogli ossi frontali molto sporgenti dinotava una tenace volontà, e sotto l'apparenza benignamente dolcereccia della fisionomia si vedeva un'acuta malizia che si faceva scambiare per buonumore.
Egli s'avanzò nella sacristia fregando le sue mani grassotte e bianche come quelle d'una signora.
– Hai già tutto preparato, Celso? Diss'egli al sacristano con accento di amichevole famigliarità.
– Sì, Padre; rispose Celso cambiando il tono superbo che aveva cogli altri in accento di umile soggezione verso il frate.
– Oh che bravo Celso! Soggiunse padre Bonaventura battendogli leggermente sulla spalla. Fa un freddo indemoniato stamattina, avrò le mani intirizzite a dir messa; fa di accendere intanto un po' meglio questo braciere perchè mi possa poi riscalducciare.
– Subito: disse il sacristano precipitandosi verso il braciere a smuoverlo, togliendo la paletta di mano al ragazzo.
– E mi metterai
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Vedi la prima parte, capitolo IX.