Fame usurpate. Vittorio Imbriani
imporre silenzio, con l'intimidazione; ma quì, tra noi, mi giova crederne spenta la razza. I riguardi ci s'impongono non dalla violenza, anzi dalla seduzione, ch'è vera forma di violenza, come sclama l'Emilia Gallotti, nel povero dramma lessinghiano. Sempronio ci pare un imbrattacarte: foss'egli efferato e potente, al pari del tiranno siracusano, glielo spiattelleremmo, sul muso, lì. Ma c'è, che, quantunque imbrattacarte, ha congiunti e congiunte, amici ed amiche, ammiratori ed ammiratrici; ed il critico meschinello (guarda combinazione!) sarà congiunto, ammiratore od amico od altro di alcuna od alcuno fra loro. C'è, che visceri d'uomo, ne abbiamo, ancor, noi, checchè blaterino gli scrittorelli tartassati. Abbiamo le debolezze della carne; ed, al postutto, non siamo angeli, come piagnucolava l'anima candida di Tartufo. Crocifiggeteci e non ritratteremo la menoma scioccheriuola, rivaleggiando coi fanatici (politici e religiosi), i quali si saranno, pur, talvolta, accorti delle assurdità, che perfidiavano nel confessare, per amor proprio malinteso. Ma non oseremmo affermare, che, a mezzogiorno, il sole sta, nel punto zenitale, ove dubitassimo di contristare persona cui ci leghi affetto; di attirarci, puta, occhiatacce bieche, da quel par d'occhi bruni, tanto gentili quando sorridono..... Ecco, io mi trovo, ad un simil bivio: o non dar parola al mio concetto d'Aleardo Aleardi; o calpestare riguardi e rispetti di non piccol momento». —
— «Che? Un par d'occhi bruni.... eh?» —
[pg!10] — «Pure?» —
— «Scrivo! certo, ch'Ella mi perdonerà. Le debbe esser noto a pruova, che, per l'onesto scrittore, quando ha la penna in mano, è giuocoforza scarabocchiare sotto la dettatura di quell'accattabrighe della coscienza. Il solo giornalista di qualche merito in Italia, Ruggiero Bonghi, dice (non so se sinceramente, ma, certo, congruamente): Io non vedo altro compenso dello scrivere, che giovare, dicendo il vero. Quando lo scrittore o non sa o non può vincere le difficoltà, che gli si oppongono a ciò, meglio tacere; e scegliere soggetti, ne' quali non debba mentire o dissimulare, a sè medesimo. Ma il galantuomo, la penna non può non recarsela in mano, quando ha qualcosa da bandire. Chi stima di posseder la verità e non si sbraccia per acquistarle fautori, aderenti, proseliti, partigiani, mi fa schifo. Al levita, capitato in mezzo ad un sinedrio di crisomoscolatri e che si sa provvisto di saldi muscoli abduttori ed adduttori, la sindèresi non concederebbe, mai, pace o tregua, s'egli non iconoclasteggiasse un tantino. Conoscendo quanto io La riverisca, Ella comprenderà, quanto mi affligga, il dover porre alla berlina un verseggiatore mediocre, ma protetto da Lei. E da un tale atto e dalla presente dedica, che ad uomo volgare parrebbe impertinenza, trarrà motivo, per confermarmi quella Sua stima, che tanto ambisco». —
[pg!11]
Angosce finse e simulò letizie
Con quell'accento che non vien dal core.
Aleardo Aleardi — Accanto a Roma.
I.
Discuto il poeta, non l'uomo. Osservazioni, epiteti, giudizî s'hanno a riferire, alla personalità dello scrittore Aleardo Aleardi, ente astratto; non allo Aleardi, uomo in carne ed ossa, che, da taluni, mi si afferma essere una cara persona. Se questo è, debbo rimpiangere di non aver avuto seco relazione di sorta, tranne una sola stretta di mano e momentanea. Potrà darsi, ch'io paja talvolta troppo acerbo, (com'ebbe a dire Alessandro Manzoni;) e mi spiacerebbe, se l'irruenza del dire scemasse credito alla cosa detta; prometto d'avere ogni riguardo, ogn'indulgenza possibile. Ma so scriver solo, fotografando i sentimenti miei: la rettorica mia consiste nell'esprimere quantunque io pensi, comunque il pensi. Ora, basta il barlume d'intelligenza, largito a' cretini, per comprendere, come un Italiano non possa ragionar di quanto, a parer suo, ammorba la nostra letteratura contemporanea, accademicamente, spassionatamente, in quella guisa, che discorrerebbe d'un cattivo andazzo antico, degli Arcadi o de' Frugoniani. Altro è il passato, altro il presente. Mentre ferve la mischia, io me n'infischio di mostrarmi garbato e cavalleresco. [pg!12] Che un pessimo verseggiatore, dugent'anni sono soddisfacesse, perfettamente, a' bisogni estetici della nazione, è fenomeno storico, che ci aveva la sua ragion d'essere; giudicarlo o discuterlo, non serve; bisogna rendersene conto. Al male odierno, invece, conviene ostare, rimediare, aprendo gli occhi agli illusi, mostrando alla gente di facile contentatura quel, che, pure, avrebbe il dritto di pretendere. Questa norma vale e per la politica e per le lettere. Nel combattere un error divulgato e radicato, sarò, quasi chirurgo, che intende a guarire una cancrena profonda e diffusa, adoperando, senza alcun ritegno, tutti i ferri del mestiere: chi l'ha per mal, si scinga. Si sbaglia, addirittura, ritenendo la calma contrassegno dell'aver ragione, e l'irruenza per indizio dell'aver torto: è faccenda di temperamento. Chi s'appassiona (già, si sa!) facilmente, trasmoda: ed io non nego di parlare, appassionatamente. Son certo, che l'Aleardi, lui, me ne saprà grado. Lo sdegnarsi di qualcosa parmi un renderle omaggio, prendendola sul serio. Una volta, trattenendosi il Goethe, in una cittaducola di bagni, nel passeggiar, per un viottolo, che conduceva, ad un mulino, incontrò non so qual principe: sopravvennero alcuni muli carichi di sacca di farina, e bisognò ricoverarsi in una casipola. I due intavolarono discussioni profonde sulle cose umane e divine. Ed essendosi mentovati I Masnadieri dello Schiller, quel principe sclamò: — «S'io fossi stato messer Domineddio, nell'accingermi a creare il mondo, prevedendo, che vi si sarebbero scritti I Masnadieri, io non l'avrei creato.» — Il giudizio era, passionalmente, esagerato: lo Schiller, però, avrebbe avuto torto di lagnarsene, perchè attribuiva tanta importanza, ad una sconciatura da collegiale. E, poi, distinguiamo: c'è passione e passione. C'è la passione, che rampolla da un interesse personale, esclusivo e, quindi, irrazionale, o illogico; e la passione monda, razionale, che mira al vantaggio universale. E di quale altro genere potrebb'essere l'affetto immenso, che ho riposto nella Letteratura Italiana, [pg!13] reputandola la incarnazione più sublime del bello poetico? Questo, a scanso d'equivoci.
II
Ire bollenti e fuggitive; santa
Ignoranza dell'odio e dell'oblio;....
Carità di perdoni; una serena
Purezza di pensier, mista a febbrile
Sperïenza di cupide carezze;
Ingenue fedi; desiderî audaci
E insazïati; avidità di arcane
Ebrezze; del martirio e de la tomba
Uno sprezzo magnanimo; un perenne
Vagheggiamento dell'eterna idea;
Ecco, Elisa, il poeta....
No, cara ed ignota Elisa, non creder, mica, da gonza, quanto scarabocchia l'Aleardi in una delle peggiori fra le sue Ore cattive. Dato e non concesso, che questa addizione impoetica di qualità sopraccariche d'epiteti, abbia, per prodotto, una persona, io, francamente, non saprei ravvisare, nelle poste, le membra disjecta d'un poeta, anzi, piuttosto, quelle d'un frate. Non i requisiti politici, fisici, morali o religiosi costituiscono il poeta; anzi la virtù di sentire ogni pensiero, in modo da trasformarlo in fantasma: tutto il resto è puro ammenicolo, quando non guasta. Che il viceconte Vittorio Hugo viva fra gli adulterî o che il conte Giacomo Leopardi muoja vergine; che il consigliere intimo Gian Lupo di Goethe strisci, nella corte d'un principato lillipuziano, o che Giorgio Byron aspetti, imperterrito, il naufragio imminente, sulle coste della Corsica; che Alessandro Manzoni sia capace di perdonar finanche a que' tedeschi, i quali fustigarono in pubblica piazza le sue milanesi, o che Dante Allaghieri sia uomo, da non perdonarla, neppure al suo Brunetto Latini; gua', sono accidenti! ci spiegano le peculiarità di que' valenti; bisogna conoscerli, per [pg!14] rendersene conto e del contenuto delle scritture; ma, con essi e senz'essi, e' si puole essere poeta. Un Byron impotente e leccazampe, un Allaghieri codardo e perdonevole, un Manzoni scettico e donnajuolo, un Goethe patriota