Fame usurpate. Vittorio Imbriani
Pongo. Sul. Sepolcro.
Di.
Carlo Troja
Questo. Canto.
Che. Vivendo. Ebbe. Caro.
[pg!19] Non appurandosi altro di questo Carlo Troja (da non confondersi col grande istorico napolitano) che l'aver egli ammirato i versi d'Aleardo Aleardi, e' ci si para davanti come un uomo il quale non abbia fatto altro vita natural durante (vita bene spesa affè!); come una ristampa peggiorata di quel Jacopo Boswell; che per la prona ammirazione verso Samuele Johnson s'è lucrata una ridicola immortalità fra gl'inglesi, tanto che Tommaso Babington Macaulay chiama spiritosamente lue boswelliana ogni venerazione inconsulta, irragionata, inintelligente.
A. Giuseppe. Garibaldi.
Aleardo. Aleardi.
Da pari a pari. Narrano che Goffredo Augusto Bürger visitasse una volta il Goethe, col quale non s'era per anco incontrato personalmente, e che per farsi conoscere gli dicesse: — «Voi siete il Goethe, io sono il Bürger;» — ma soggiungono che il Goethe gli voltasse le spalle, lasciandolo in asso.
La fatuità non è l'orgoglio, rimpicciolisce: quindi (se m'han detto il vero: ma, se non è vero, è ben trovato!) quindi la debolezza dell'Aleardi di mutarsi il prenome di Gaetano, che veramente è un po' volgare, in quello inaudito d'Aleardo, che è d'un buffo, ma d'un buffo!...... Vergognarsi d'essere l'omonimo dell'autore della Scienza della Legislazione! Ma il Foscolo si vergognò di portare lo stesso prenome dell'autore del Principe, — «quando in Ugo cambiò ser Nicoletto!» — Piccolezze umane! Il volgo si preoccupa molto de' nomi, e da essi giudica gli uomini: non del tutto irrazionalmente, s'e' si trattasse de' cognomi, i quali indicano la schiatta, sebbene la fragilità delle mogli cagioni molte perturbazioncelle note ed ignote; ma scioccamente affatto, per quanto concerne i prenomi, dipendendo questi dall'arbitrio de' genitori, de' parenti, de' compari. Un critico inglese a proposito di alcuni verseggiatori americani scriveva: — «C'era o c'è un [pg!20] certo Dwight, il quale ha stampato un poema in forma d'epopea; ed il nome suo di battesimo era Timoteo». — Il lettore volgare sogghigna d'un poema epico che ha per autore un Timoteo e l'opera gli par giudicata. Sarebbe come se un napoletano per confutar la filosofia del Gioberti, si limitasse a dire-: — «Che razza di filosofia volete che stampi uno che si chiama Si Vicienzo?» — Ma se l'Aleardi fosse davvero quello sdegnoso pel quale e' si spaccia, avrebbe pensato l'uomo illustrar il nome, non il nome l'uomo.
What's in a name? That which we call a rose,
By any other name would smell as sweet.
Questa idiosincrasia, che nell'Aleardi ci stomaca, non è punto rara nella colonia europea del Parnaso. Splendido esempio presso i francesi Alfonso di Lamartine, pertinace a descrivere se dovunque ed ognora, nel parossismo dell'effusione lirica, quasi nel momento dell'affetto avesse avuto uno specchio davanti ed equanimità da studiarvi le mosse, il nodo della cravatta e la discriminatura. Finanche quando da una sua parola dipendono le sorti della patria, quando volgo ed assemblea aspettano che egli decida, per proclamare o la repubblica o la reggenza della duchessa d'Orléans, ha tempo da pensare all'atteggiamento, da notare i gesti propri. Finanche piangendo una figliuola unica, perduta per sua colpa!
Le front dans mes deux mains, je m'assis sur la pierre,
Pensant à ce qu'avait pensé ce front divin,
Et repassant en moi de leur source à leur fin,
Ces larmes dont le cours a creusé ma carrière.
Or bene, Aleardo Aleardi ha trovato modo di superare Alfonso di Lamartine! Allegramente, pècori giobertiani! ecco un nuovo documento del nostro primato! Anche rivedendo la madre in cielo, egli pensa solo a coglier l'occasione per esaltar sè, calunniando [pg!21] un popolo ed un secolo, dei quali non possiede e non comprende la robusta virtù:
Nuovamente accorrâi questo sdegnoso
Che partorivi con fatica tanta,
O troppo presto o troppo tardi, in mezzo
A le viltadi d'una fiacca stirpe.
Ogni quadro gli sembrerebbe imperfetto s'egli non vi occupasse il primo piano. In un canto profetizza l'ingresso trionfale del Re nella patria Verona, la dimane d'una vittoria sugli Austriaci: benchè la descrizione sia mediocrissimamente favoleggiata, pure il semplice pensiero della cosa descritta esercita tal potenza su d'un patriota Italiano, ch'e' si riman compunti fino alle lacrime. Quand'ecco, sul più bello, l'autore, quasi arrovellato che veronesi e leggitori, assorti nell'immagine simpatica del Re, dimentichino lui, scappa fuori così:
Emanuele, Re d'Italia, anch'io
Non ultimo poeta,
Un saluto t'invio. Certo mia madre,
Santa com'era, divinando il figlio,
Me al nascere di panni
Tricolori fasciò. Sin da fanciullo....
eccetera. E così giù per ventun verso farnetica di sè, finchè gli paia tempo, dopo essersi ricordato e raccomandato all'attenzione del rispettabil pubblico e dell'inclita guarnigione, di riprendere l'interminabile pittura, slavata in guisa da sembrare quel che ahimè! non puol essere, copiata dalle gazzette.
In una poesia volante (dichiaro fra parentesi di non capire come possano volare le poesie) troviamo il Nostro prigione oltr'Alpi. Una giovanetta, fior di cortesia, ch'ei non vide mai, nè vedrà forse in terra mai, gli ha usato di quelle benevolenze che scendono tanto dolci al cuor dell'esule e del captivo. Come ringraziare una donna se non lodandola? e [pg!22] che lodare credibilmente in una ignota ed incognita? Il nome: questo nome fu anche della madre di lui e par quasi che stabilisca una parentela fra' due. Benone! chi non ha talvolta profittato di simile coincidenze, chi non le ha spesso astutamente mentite, per trovare punti di contatto con qualcuna che gli premeva? Fin qui la poesia riesce gentile, affettuosa; la situazione è felice: commuove daddovero quell'uomo costretto ad accettare alcunchè da una donna ed il quale può rimeritarnela solo con poche strofette. Ma l'Aleardi non si ferma su questo motivo; non può rassegnarsi a rimaner nella mente della giovane Fraile un carcerato qualunque; vuol darsi importanza; gli manca la sublime verecondia che nel Conte di Carmagnola del Manzoni induce il Pergola figlio a confondersi con gli altri prigionieri volgari e tacere; quindi termina:
Ma siccome ho giurato alla mia Musa
Di non cantar fuor dell'Italia mai,
Se la incontri per via
Non le dir ch'io cantai, bella Maria.
Ecco sfumata la gentile impressione. Non vedi più che la fatuità poetica di chi si fa correre dietro per lo mondo una personificazione della Poesia, quasi uscito lui d'Italia, ne sia svanito ogni lume d'Arte. E siccome, nel senso di poichè, non è Italiano; gallicismo, barbarismo.
Come ultima sciagura a Genova ed a Pisa, scellerate nipoti di Caino, il Nostro annunzia loro che il Vate le maledice: se le perpetue guerricciuole delle repubblichette medievali non avesser procacciato altro danno che le imprecazioni dell'Aleardi!... Convien rileggere intero il brano per rendersi ragione di tutto il prepotente effetto comico della scappata. L'autore, per rappresentarmi le due città, le personifica: Pisa, in sella ad una prua spumante, scende a giostrare con Genova, leonessa saettatrice: e non si capisce punto perchè non abbia all'incontrario [pg!23] fatta inforcar la prora a Genova e chiamata luna sagittaria Pisa. Il Poeta passa di lì, forse camminando sulle acque come san Pietro, probabilmente qual ei vien descritto altrove: l'astro del genio in fronte, e senza dubbio coi baffi e col pizzo dell'Aleardi; e si ferma a recitare con qualche opportuna variante i versi di Ugo Foscolo sulla battaglia di Maratona. Perchè un anatema conturbi chi l'ascolta, si richiede autorità in chi lo profferisce: