Fame usurpate. Vittorio Imbriani

Fame usurpate - Vittorio Imbriani


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fossero toccate dalla polizia austriaca le vessazioni che il pittore leccese Gioacchino Toma sofferse dalla borbonica e mercè le quali rischiava di crepar di fame? Autodidatta, egli era venuto da Tricase a Napoli pedestremente per amor dell'arte e campava facendo l'ornamentista il giorno e studiando il nudo la sera: sbandirlo dalla metropoli era un precludergli ogn'avvenire artistico ed un togliergli ogni mezzo di sostentarsi nel presente. Ed ha penato con impassibilità, s'è onestamente ingegnato, ha preso le armi nel momento opportuno, ha pugnato con coraggio, senza poi mendicare il riconoscimento delle sue spalline insurrezionali. Ed il Toma non chiacchiera mai corampopulo de' suoi fatti, non si dipinge da protagonista ne' suoi quadri; ed è uomo che dopo aver pennelleggiato quel capolavoro dello Esame rigoroso del Sant'Uffizio, perchè sente altamente dell'Arte, perchè sente pudicamente di sè, teme d'aver mal fatto, appoggia la tela con la superficie dipinta rivolta al muro, la guarda di tempo in tempo dubitando sempre e finalmente, sforzato dagli amici e dal bisogno, la porta di contraggenio all'Esposizione, dove la intera Napoli la ammira. Non tutti siamo da tanto, nè per valore nè per modestia: sappiamcelo! Ma tutti o sommi o minimi, o scrittori od artisti, riguarderemmo come insultante una legge sul tenore dell'Ateniese, che il commendatore Aleardo Aleardi sembra rimpiangere, la quale vietasse agli scrittori od agli artisti di avventurarsi in battaglia. E se mai legge analoga ricevesse l'approvazione de' due rami del Parlamento e venisse sancita e promulgata dal Re, non ci casca un dubbio al mondo, che malgrado la nostra devozione al Parlamento ed al Re, la trasgrediremmo.

      [pg!33] Ben inteso che ho parlato sempre non dell'Aleardi uomo, anzi dell'Aleardi poeta. Dunque non ha sentito nè la religione, ned il patriottismo. Vediamo se per avventura abbia sentito l'amore.

       Indice

      L'amore è per le letterature de' popoli moderni quel che la vôlta è per le loro architetture. E l'uno e l'altra acquistarono valore per l'Arte appo i Romani e signoria presso che esclusiva nel Medio-Evo. Allora la vôlta divenne principio e norma di ogni costruzione artistica, anche nelle contrade dalle quali il clima e la natura del materiale in uso avrebbero dovuto apparentemente escluderla. Inesauribile nelle forme e nelle combinazioni; pieghevole ad ogni scopo, ad ogni bizzarria; capricciosamente complicata nel gotico e nel barocco; miracolosa nelle cupole, ne' ponti, negli acquedotti; perchè cominciasse a perdere del suo d'impero, conveniva che questo matto secolo decimonono desse di piglio a due materiali sin'oggi trascurati dall'arte edificatoria: al ferro ed al vetro, rivaleggiando con lo Atlante dell'Ariosto e con le fate de' conti popolari.

      Parlavamo di amore. Non v'ha passione più spontanea, più universale, più comprensibile: ogni uomo, che sia uomo, ogni animale, che abbia anima, debbe averla sentita o sott'una o sott'altra forma; se finanche le cieche forze di natura sembrano sciogliersi in rapporti amorosi! — «Niuno effetto ovvero accidente, qualunque ei si sia, è tanto universale e comune a tutte le cose. Perciocchè egli non è cosa nessuna in luogo nessuno, nè tanto bassa e ignobile, nè così alta ed eccellente, la quale non abbia in sè qualche amore; anzi quanto è più nobile ciascuna cosa e più perfetta, tanto ha senz'alcun fallo più perfetto amore e più nobile.» — Così Benedetto Varchi. Foggiandosi l'amore diversissimamente, secondo le più minute e nascose parti della personalità amante e dell'amata, [pg!34] esso è inesauribile nelle sue modificazioni: e quindi, tanti poeti, tanti amori. Sel sanno e conscii di quanto lor giovi quest'affetto, non possono pensarvi senza entusiasmo e riconoscenza, — «sono innamorati dell'amore; — Applaudissez du moins pour l'amour de l'amour, conchiude una volta Teodoro di Banville. Hanno adoperato le più vaghe parole ed efficaci per rappresentarcelo vivamente; hanno sfruttato le cave delle metafore e degli epiteti per caratterizzarlo. L'hanno chiamato fiamma, catena, sospiro, piaga, luce, guerra, martoro, follia, raggio; ed ognuno di questi termini indica ed implica già di per sè ed in nuce un concetto della passione; sebbene col tempo, pur troppo, rimettendo della efficacia primitiva, siano precipitati nell'uso volgare della lingua, e sappiano del rettorico quando lo scrittore indifferentemente li adopera. Ed Aleardo Aleardi in busca di novità chiama l'amore.... voi non vorrete credermi, ed è pur così.... chiama l'amore: assillo! Dunque non è per lui la fiamma divoratrice del vivicomburio; nè la piaga onde sgorga il sangue e la cancrena si diffonde; nè la catena obbrobriosa, fatale e pur cara; ned il martirio immeritato e sofferto imperturbatamente, grazie alla buona speranza che lo allevia; ned il raggio implorato che dissipa gli errori della tenebria; no! chêh! anzi una delle innumerevoli noje della vita, seccatura inevitabile che ci sforziamo di scacciare come l'importuno tafano, bestemmiando la santa volontà di messer domineddio. L'amore è un disturbo della nostra pace; distrae Narciso che si specchia al fonte, e sparpaglia e fa diventar frenetica con le sue punture la povera mandra umana che rumina tranquillamente all'ombra. Nè si scusi l'Aleardi allegando il tropo esser tolto di peso dall'ode terza d'Anacreonte tejo. Perchè rubare quando non si sa utilizzare il furto? In quello scherzo umoristico dello amico di Policrate samio, un puro paragone simile, fatto di volo, sta bene; ma chi ne fa una metafora e l'adopera sul serio, non sa quel che si faccia. [pg!35] E la passione amorosa che in Omero esiste appena come accessorio e sotto la forma quasi brutale d'affetto conjugale; che l'Erissimaco di Platone confessa con istupore di non trovare encomiata da alcuno de' tanti innografi; che in Virgilio, quantunque essenziale d'importanza, è puramente episodica nella composizione: diventa dalla poesia provenzale in poi fondamento e condizione d'ogni poesia. Sembra che ormai l'ideale possa incarnarsi solo in forme femminili; e che la via fatta, o prosperamente od indarno, per raggiungerlo, l'Iliade combattuta e l'Odissea sostenuta, possa ritrarsi unicamente dipingendo le vicende di un amore. Diceva il Goethe: — «Rassomiglio le donne a patere d'argento, in cui noi poniamo frutta d'oro. L'idea, ch'io ne ho, non l'astraggo dalle parvenze effettive, anzi m'è innata, od è sorta in me dio sa come. I caratteri femminili, che ho rappresentati, se ne sono avvantaggiati: sono meglio sempre che nella effettività... La donna è l'unico vaso, che rimanga a' moderni, per versarvi la loro idealità. Degli uomini non c'è, che farne. Omero ha tutto preso anticipatamente in Achille ed Ulisse, nel più forte e nel più saggio.»

      Questo modo di concepir l'amore apparterrebbe al più basso comico, al buffonesco. Quando il monaco medievale raffigurava nella miglior passione umana il demonio tentatore e si crocesignava scorgendo una bella ragazza, era ridicolo; ma latitava pur sempre uno strazio altamente serio in fondo a quell'apparenza comica: tutto il fàscino della tentazione, tutto l'intenso desiderio del frutto vietato, tutta l'ebbrezza d'una gioia momentanea fruita a prezzo d'eterni tormenti. Quando l'alverniate Sebastian-Rocco-Nicolò Chamfort definiva l'amore: — «scambio di due capricci e contatto di due epidermidi» — era ignobilmente prosaico; eppure si ravvisa qualcosa di tragico in quest'uomo costretto dal ragionamento e dall'esperienza a negare la maggior dolcezza della vita. Epperò quel comico spontaneo e questo comico [pg!36] dottrinario serbano una certa dignità. Invece il comico del concetto implicito nella espressione aleardesca, risiede nell'incapacità del subjetto, il quale si dimostra disadatto a gustar l'amore. È una comicità nauseosa, come quella dell'eunuco innamorato delle sultane che attuffa nel bagno o conduce al talamo del padrone, nelle Lettere persiane di Carlo di Secondat, barone della Brède e di Montesquieu.

      Ho detto è, doveva dire sarebbe, se fosse sentita ed enucleata, il che non è. Meno forse d'ogni altra cosa l'Aleardi concepisce l'amore: qui proprio non ha mai barlume di vera tenerezza o di vera disperazione, qui dove l'infimo degli scrivacchiatori coglie spesso qualche felice momento. S'egli ostenta d'essere amato, non commette un'indiscrezione scusabile dall'affetto sovrabbondante, anzi una calcolata scimmieggiatura di Vittor Hugo per propalare che una signora comiffò il chiama: mio poeta. Se impreca ad una ritrosa, non accade pel crepacuore della passione insoddisfatta, anzi per tradire, imitando Giacomo Leopardi nell'Aspasia, dispetto e meraviglia che una donna abbia potuto non istimarsi onorata e beata d'esser prescelta ad appagar le voglie d'un tanto vate. Ripeto, tutto questo tornerebbe sublimemente disgustoso, se il comico ne fosse sentito e svolto: ma l'autore parla con la massima serietà e senza evidenza.

      Non sente l'amore. Descrivendo due amanti, i quali godono: — «quel soave fin d'amor, che pare All'ignorante vulgo un grave eccesso,» — il signor Aleardi ha osato chiamare i momenti di voluttuosa ebbrezza:

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