Fame usurpate. Vittorio Imbriani

Fame usurpate - Vittorio Imbriani


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di formulare un'emozioncella in modo spiccato, facile a ritenersi, musicale anzichè poetico, sono forse non immeritevoli d'indulto. Approvo anche la dieresi, sebbene di solito diamante sia trissillabo, e nello italianizzar vocaboli greci che cominciano per dià, come diavolo, diadema, si soglia restringere la particella in una sola sillaba, facendo dell'i una j consonante; così Dante: Che questi lasciò un diavolo in sua vece. [pg!50] Ma l'Aleardi fa seguire immediatamente quest'altro tetrastico:

       Abbiam catene in cambio di smaniglie,

       La fune al collo in cambio di monili;

       Le nostre fronti gocciano vermiglie

       Sotto un serto di rie spine servili;

      che è pura rettorica: immagini false e quindi inefficaci e poi vengono questi versi:

       Noi pur, se giova, taglierem le chiome;

       E, con le trecce de' capelli neri,

       Tenderem corde da avventar saette;

      elle sono rettorica pretta. Care, non fate, che non giova. Vi svisereste senza scopo. Solo gl'indigeni della Nuova-Zelanda adoprano saette, ora; nel secolo dei cannoni rigati e de' fucili ad ago. All'Aleardi, strano fenomeno, sembra prosaico il caratteristico, ch'è il vero poetico, e quindi s'attuffa nei luoghi comuni. Anch'egli Francesco Dall'Ongaro (altra bella cima e cara gioia!) ne' suoi Stornelli (che non sono altrimenti stornelli, anzi rispetti) fa offrire dalle livornesi il sacrificio di questa bellezza muliebre. La Maria Antonietta (dice egli) aveva giurato (credat Judaeus Apella, non ego) tornando, d'imbottirsi le materassa e gli origlieri con le trecce delle livornesi; e queste rispondono, ricordando come in altri secoli le loro capellature servissero a tender gli archi, e promettendo d'impiegarle ora a fasciar le ferite ai volontarî. Reminiscenza del Tasso: ma non si comprende, come nel caso dell'Erminia e di Tancredi, la necessità di ricorrere a tali fasciature poco igieniche e molto disadatte: manca pezze, bindelli e sfilacci?

       Altezza, queste trecce, o brune o bionde,

       Le abbiam già tronche un dì di propria mano,

       Per tender gli archi e risarcir le fionde

       Ai difensori dell'onor toscano.

       Or fascerem le margini profonde

       Ai volontarî del lombardo piano....

      [pg!51]

       Ma voi non ci godrete ore tranquille,

       Vi pungeranno, Altezza, al par di spille....

      Ma questa freddura è roba vecchia, vieta, stantia, rancida, barba di cassone e di scaffale, fritta e rifritta, trita e ritrita, detta e ridetta le mille volte e meglio assai da scrittori precedenti, e con più spirito, Per esempio, il secentista Antonio Muscettola ha composta una canzone concettosa intitolata, La chioma recisa, dedicata al signor Mario Rota, in cui scrive:

       IV. Già di recisa chioma

       Fabricarsi mirò bellico arnese,

       Perchè fusser difese

       L'eccelse rocche sue, l'antica Roma;

       Et or nove armi architettando Amore,

       Troncò quel crin per saettarmi il core.

       XI.... Et, o beata sorte,

       Se la crudel che mi ferì sdegnosa,

       Divenuta pietosa

       Di mia vicina irreparabil morte,

       Troncasse del suo crin le fila vaghe

       Del sen trafitto per fasciar le piaghe.

      Le tre ottave Alle Donne Milanesi sono indovinate, meno la seconda. Il componimento venne recitato in una festa data a Milano nel MDCCCLX, da signore veneziane abbrunate, che presentavano dei mazzolini di fiori alle lombarde e che invece di darsi in ispettacolo con simili commedie, avrebber servito meglio assai la patria standosene costumatamente in casa a rinacciare o far conserve od insegnare a compitare a' figliuoli. Come è ben sentito il verso onomatopeico, che rappresenta l'austriaco, Ululando la lingua di Lutero! magnifico e caratteristico in bocca d'Italiane cattoliche. L'ultima ottava poi è un capolavoro tecnico e poetico: quanta gentilezza nella chiusa:

       E voi, lombarde memori sorelle,

       Se mai trovate tra i soavi odori

       Qualche stilla rimasta per incanto,

       Badate, o pie, non è rugiada, è pianto.

      [pg!52] Nel madrigale A Re Vittorio Emmanuele finalmente, col quale Venezia serva è supposta accompagnare un bucchè, la personificazione è così spontanea e ben riuscita, che non oso condannarla; l'antitesi è così gentile e ben trattata, così franco e ben maneggiato il verso, che neppure un pedante osa chiedere da quando in qua le parti sono invertite e le spose mandino ramiglietti (mi si perdoni il napoletanesimo autorizzato da un esempio del Tansillo) mandino ramaglietti agli sposi, ed un napolitano stesso leggendo non pensa all'equivoco osceno che nel suo dialetto offre l'ultimo verso e quella parolaccia mazzo. Quando si giunge a preoccupare un napolitano fino al punto di non fargli avvertire una porcheria, è tutto dire. C'est un joli rien, come dicono oltr'Alpi. Per questi nulla, per queste inezie solo, aveva disposizione e capacità l'Aleardi: ed è veramente da rimpiangere ch'e' non ne abbia scritto in maggior numero.

      Nulla? inezie? Sbaglio, ho mal detto. Non è mica la mole che fa il merito d'una poesia, anzi la perfezione: e parecchi rimangono immortali per siffatte gemme epigrammatiche. L'impressione momentanea ha dritto ad essere espressa dal vate; e molti poeti non possono, per idiosincrasia loro, ammucchiare i pensieri, le immagini, i sentimenti che quotidianamente si presentano alla fantasia, ammucchiarli, dico, ne' magazzini della memoria pe' casi in cui occorrano; se non li esitassero subito, li perderebbero. Così pure alcune frutta bisogna coglierle e mangiarle; la dimane non sarebber più commestibili. Così pure alcune pietanze vogliono esser trangugiate calde; a Napoli dicono: friggi e servi. Aggiungerò che l'eccellenza si raggiunge più agevolmente in queste bagattelle, che ne' lavori di lunga lena. S'è sempre freschi; non s'è sopraggiunti da quelle stanchezze micidiali, che inducono spesso a buttar giù l'opera di anni od a lasciare interrotte minacce di lavori ingenti; non si rischia di riuscir mediocre in qualche parte, che sbagliata fa scomparire il rimanente quantunque ottimo; non si è costretti a sacrificare, ad eliminare [pg!53] mille bellezze, che non servono per lo schema concepito. Maestro del genere è l'Arouet: e dire che il signor di Ferney se n'è compiaciuto equivale al ragionare la bontà del genere; l'istinto inconscio d'un tanto genio è infallibile.

       Chè intelletto divin, celeste ingegno,

       Nulla a caso giammai forma e dispone.

      (Adone. VI. 8.)

      Il Goethe opinava: — «Quantunque scriva un Voltaire, mi par buono, sebbene io protesti contro alcune temerità; ma le poesie d'occasione sono fra le sue cose più aggraziate: non v'incontri verso, che non ridondi di chiarezza, di spirito, di venustà, d'ilarità. Non visse mai poeta che al par di lui comandasse a bacchetta l'ingegno proprio. Una volta, mentre egli, dopo lunga visita alla Du-Chatelet, stava per incarrozzarsi, sopraggiunge un messaggio dalle educande del vicino convento; le quali, volendo recitare pel natalizio della Badessa la Morte di Cesare, pregavano l'autore d'un prologo apposta. L'occasione era tanto amena, che l'uomo non potea lasciarsela sfuggire. E' si fa recare penna, carta e calamajo; e verga il prologo richiesto sul caminetto, in piedi. Saran venti versi: la poesia è pensatissima e perfetta, appropriatissima al caso, d'ottimo gusto. Ma non mi pare inserita nella raccolta delle sue opere.» — Un genere, ripeto, che lo amante


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