Fame usurpate. Vittorio Imbriani

Fame usurpate - Vittorio Imbriani


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di pelargonie ad alcune varietà. Ed il Behrisch li malediva: — «Imbecilli! io mi rallegravo di aver la stanza piena di geranî, e loro vengono e dicono che, nossignore, son pelargonie. Ed io cos'ho da farmene se non sono geranî? delle pelargonie a me cos'importa?» — Que' nomacci eterocliti non ci stanno mica per una necessità poetica; vi son tirati pe' capelli a documento della scienza botanica dell'autore. Ad Alessandro Manzoni, che si guarda ben dal farla, noi perdoneremmo quest'ostentazion di sapere, la quale in lui potrebbe psicologicamente giustificarsi. Difatti, il descrittore del giardino inselvatichito di Renzo Tramaglini non è un dilettante di botanica, anzi un filologo di primissim'ordine, che ha ideato una classificazione delle piante originalissima, [pg!67] e, come mi asseverano uomini competenti, scientificamente superiore a quelle dello svezzese Carlo di Linneo o del ginevrino Augustino-Piramo Decandolle. Ma la scienza dell'Aleardi probabilmente si riduce a qualche reminiscenza scolastica, all'aver isfogliato un manuale od all'aver passeggiato in qualche giardino de' semplici, leggendo su' polizzini attaccati alle piante od impalati lungo le ajuole: conifere, lonicere, ottonie, bromelie, benisterie, ninfee, napelli, solatro, ranuncolo scellerato, lemna, eccetera, eccetera. Propongo un'ipotesi: forse il Nostro fa ciò per mero esercizio mnemonico. Diceva il Goethe: — Degli studî ci rimane sol quanto praticamente applichiamo, il resto va perduto.» — L'autore adopera que' termini, perchè gli rimanga impressa qualche cognizioncella botanica racimolata qua e là. Non sarei punto sorpreso, che non avendole mentovate mai, ignori cosa sono la vellintonia, l'eucalitto, la zeodaria, lo xilosteo, le alimacee, il liriodentro tulipifero, l'asimina triloba, eccetera, eccetera.

      Il poeta non è topografo; nè la natura per sè stessa poetica. Mancando l'uomo che vi si agita, non ci commuove. Il mondo senza uomini, come dice Piersippe Giusti, ossia il Marchese Giuseppe Spiriti, nella Salace trasformata:

      ..... ancorchè spettacolo giocondo

      Di meraviglie sia egli a sè stesso,

      Pur fora qual teatro a cui sian tolti

      Chi vi giuochi la sera e chi l'ascolti.

      Dunque, volendo rappresentarmi, puta caso, una valle, basta dipingermela come scena di un avvenimento caratteristico, ed è perfettamente inutile che tu spenda un cinquanta versi a particolareggiarmene la pianta, i nomi antichi e moderni, le produzioni e che so io; minuzie interessantissime in una Guida novissima del Viaggiatore, ma che non suscitano immagini commoventi, così da dar vita al fantasma di quella valle. Più analizzi, più distingui, più sminuzzi, più dettagli e meno veggo l'insieme. Dimmi [pg!68] che i monti son cinerei, che la consolare è candida (l'avran forse lastricata di carrara lustro), che il fiume è verde (cosa da stagno), e mi avrai unicamente posto sotto gli occhi tre immobili macchiacce: verdognola cinerognola e biancastra. Dimmi che passano poane pel cielo e zattere pel fiume; ed io potrò solo fondare meditazioni ornitologiche e commerciali su codesti fatti. Dimmi che l'Adice reca a Verona un sorriso di Trento, ed io rispondo sbadigliando: — «rettorica!» — Dimmi che un fortino veneto è trasformato in fortezza austriaca, ed io ti ringrazio della notizia archeologica.

      — «Ma» — scappa fuori l'Aleardi, indispettito come un bambino, al quale si vieti di fare ogni impertinenza — «questo no, quello no; corpo dell'ostia, come aveva io a fare per dipinger poeticamente la Chiusa?» —

      — Come, eh? Semplicissimo! Cancellar tutta la descrizione salvo queste parole:

       ..... Il loco ha somiglianza

       Di Termopile, e forse alcuno attende

       Leonida venturo.

      Ma sa Ella, che questa immagine è degnissima del maggior poeta? Illumina la personalità dell'autore; suscita l'objetto innanzi alla fantasia; promuove un tumulto di pensieri. Ecco qua, senza corredo d'annotanzioncelle prosentuose, senza imprecazioni, senza contorsioni o scontorcimenti, lo scrittore si dimostra, io m'accorgo, ch'egli è patriota; m'accorgo, ch'egli è di una terra serva sì, ma ognor fremente, e fiduciosa nella vicina riscossa, e certa di non mancare al proprio dovere: onesta baldanza! Ch'è d'un paese insomma, eo immitior quia toleraverat, che ha dato i Mille come la Grecia i Trecento. Quella sola immagine mi dipinge la valle nella fantasia così vivace e caratteristicamente, come s'io l'avessi vista co' proprî occhi miei: vi ha pochi esempli d'una descrizione poetica tanto vera e perfetta. Ma perduta questa geniale oasi in un deserto d'inconcludenze e di rettorica, [pg!69] passa inavvertita e fallisce l'effetto. Quel che più importa allo scrittore ambizioso, non dico di eccellenza, anzi solo di serietà, è il saper cancellare. Un componimento esce dalla fantasia, come la statua di bronzo dalla forma, tutto sbavature; bisogna limare e cesellare, cesellare e limare senza mai stancarsi. Dicon che lo Schiller fosse maestro di cosiffatte potagioni. Gli avevano mandato una volta pel suo Almanacco delle Muse non so che oda pomposa in ventidue strofe: a furia di cancellazioni e' la ridusse a sette, e sì che mediante le crudeli amputazioni il prodotto ci guadagnò, rimanendo intatto nelle sette strofe il buono sparpagliato per le ventidue. Pirro Lallebasque, ossia Pasquale Borrelli da Tornareccio, osservò bene, quantunque barbaramente si esprimesse, scrivendo: — «Noi non siamo prolissi, se non perchè ci manca il tempo o la pazienza di esser brevi.» — Voleva dire: Siamo prolissi, sol perchè, eccettera. Come disse il Metternich al Varnhagen? — «Se scorgo qualche oscurità nel mio dettato o sento che qualche brano potrebbe non riuscir chiaro ai lettori, seguo il consiglio datomi una volta dal vecchio barone di Thugut, uomo pratico che m'insegnò di non ingegnarmi a dare un altro giro al pensiero, a modificarlo, anzi di studiarmi solo di cancellare quanto vi ha di superfluo nel luogo oscuro; il rimanente esprime compiutamente e sicuramente il senso. E trovo di fatto che il semplice si regge da sè, i puntelli e gli aiuti oscurano per lo più». —

      Il poeta non è delegato di questura: non gli è concesso, mal presume di raffigurarmi una persona, enumerandone i connotati, perchè con essi posso solo al più arrabbattarmi a costruirmi nella mente un insieme di venti parti; ma l'immagine non mi balza viva nella fantasia, non vi s'affaccia repentinamente, non Fa di sè bella et improvvisa mostra, come Diana in scena o Citerea si mostra. Che vita nelle Silvie e nelle Nerine del Leopardi! eppure il recanatese non le esamina membro per membro dal vertice alle piante [pg!70] come in una visita medica, come usa con le meretrici. L'Elvira, la bellissima donna amata da Consalvo, era alta un metro e settanta, oppure un metro e sessanta centimetri? La Nerina era bruna o bionda? L'occhio della Silvia era nero od azzurro? Solo incidentalmente apprendiamo che quest'ultima era di capel nero:

      Non ti molceva il core,

      La dolce lode, or delle negre chiome,

      Or degli sguardi innamorati e schivi;

      Nè teco le compagne, a' di festivi,

      Ragionavan d'amore.

      In prosa, si può ammettere qualche latitudine nel descrivere i protagonisti; eppure Alfredo di Vigny (ch'è tra' quattro o cinque francesi di questo secolo, i quali abbiano saputo scrivere) sclamava: — «Non ho punto bisogno d'un ritratto in miniatura d'ogni vostro personaggio. Credetemi, a chiunque sia per poco immaginoso, basta uno schizzo. Un tratto indovinato vai più di tanti particolari. Se vi lascio fare, mi direte la manifattura de' nastri di seta adoperati per la coccarda degli scarpini. Abito pernicioso di narrare, che si diffonde spaventevolmente.» — Chi si lascia vincere dalla smania, dalla mania di descrivere, non ha più freno, e sacrifica tutto pur di soddisfarla. Mi ricordo, in un romanzo francese, che un tale dà un'occhiata, una occhiata fugace in una stanza e vede.... vede i più minuti oggetti, che ne vengono minutamente enumerati e descritti; vede e nota ciò, che un'ora di esame attento non sarebbe sufficiente a vedere e notare. Diceva il Goethe di Gualtiero Scotto: — «Strano che appunto la virtuosità nel particolareggiare, lo induca in errore! Nell'Ivanhoe descrive l'apparenza e le vesti d'un forestiero, che entra durante la mensa nel tinello d'un maniere, e sta bene; ma che ne descriva i piedi, le calze e la calzatura è uno sproposito. Quando siedi a mensa di sera, se qualcuno entra, ne scorgi solo la parte superiore del corpo. Descrivendo i piedi, [pg!71] entra subito in ballo la luce del giorno, e così la scena perde il carattere notturno.» — La poesia, impotente a darmi la forma esterna, mi dà la coscienza o l'azione del personaggio, che la fantasia del lettore riveste in un battibaleno di forme


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