Fame usurpate. Vittorio Imbriani
De l'umano timor, guarda e sorride.
Ma un vero credente forse temerebbe che quel suo cristianesimo rettorico e sbiadito voglia conferir tanto poco alla sua salvezza eterna quanto poco giova al suo merito letterario. Quel dio, così spesso apostrofato, non è persona, anzi personificazione; e neppure: è una mera occasione, un pretesto, per rammodernare in fragorosi versi il cianciume delle immagini bibliche. Una vecchia protestantaccia importunava sempre la fantesca cattolica, acciò ne andasse al tempio ed ascoltasse i sermoni del pastore. La domestica v'andò una domenica per arrendevolezza; e si sciroppò la predica, attenta e devotamente. A casa poi la padrona l'accolse con una sfuriata [pg!28] d'interrogazioni. — «Neh, ch'è una gran bella cosa? Neh, che vi si parla benissimo e pertinentissimamente di iddio?» — La servetta, dopo aver ascoltato un pezzo, poi rispose: — «Ne parlan molto, ma nol mostran punto». — L'Aleardi nomina sempre dio; ma non cel mostra mai. Ma non ha la più remota idea dell'ardente religiosità ed appassionata, che cerca sfogo irreperibile nella penitenza, nelle stravaganze de' riti, nella preghiera; che guasta tante belle ginocchia e consuma tanti animi gentili sul genuflessorio o nel confessionile; che fa piangere; che fa sperare e sperare e disperare; che ci fa vedere il nostro ideale morale come una personalità distinta da noi, o amico perdonevole o giudice inesorabile. Egli non ha mai provato e neppure intelletto cose siano la paurosa preoccupazione dell'eternità, gli scrupoli severi, quei dubbi che schiantano il cuore, gl'imperativi categorici, i delirî sublimi di san Tommaso d'Aquino o di santa Teresa d'Avila, che udivano esterrefatti parlare i Cristi di legno, che si accorgevano con isbigottimento d'essere stati rapiti al cielo. Cheh! la religione dell'Aleardi non è neppure una cosa eterna, come la concepisce e pratica certa brava gente che va puntualmente a sentir messa la domenica e tutti i giorni crocesegnati nel calendario; che mangia di magro mercoledì, venerdì e sabato; che obbedisce al decalogo ed ai precetti di santa madre chiesa: ma nei quali dio non vive. Questa religione rifredda, alla Don Abbondio, desta almeno il riso o il disgusto: è cosa da commedia, è cosa scurrile; ma lo scurrile è categoria del comico ed il comico è forma di poesia. Invece il cristianesimo dell'Aleardi sembra un abito stanco, una vuota consuetudine di professarsi cristiano, com'usa pur troppo da molti in Italia, quantunque in fondo non si sia più cristiani che turchi o scettici od hegeliani e s'ignorino affatto gli spasimi e le voluttà del sentimento religioso, e non si pratichino neppure i riti del culto. Da questa disposizion d'animo può solo emergere l'ironia, e quando l'autore non sa o non [pg!29] può ironizzare, e vuol fingersi cristiano come Vincenzo Monti si fingeva pagano, rimarrà sempre nel declamatorio e nel rettorico.
V.
Nè diversamente accade all'Aleardi quando ragiona d'amor patrio o di libertà.
— «Come, come? cos'ha detto? Forse abbiamo franteso. Il patriottismo, il liberalismo non sarebbero passione in Aleardo Aleardi? E le sue persecuzioni? E l'esilio? E Iosephstadt? Ed i tempi passati.... su lo strame De le prigion, col trave Del patibolo in faccia?» —
Io non dico dell'uomo: che importa dell'uomo a me ed a voi? Ma dall'Aleardi poeta anche l'amor patrio si ostenta sol per dare un qualche spicco alla personalità del poeta, rassomigliando alla foglietta d'argento che l'orafo sottopone ad un mediocre plasma di smeraldo acciò sfolgori quanto una vera gemma. Il patriottismo del cittadino rimane sterile per lo scrittore: ne parla, nol mostra. Cos'è l'Italia per lui? Si scartabellano senza frutto i canti in cerca d'un concetto della patria, della libertà, espresso in una immagine ammodo: per l'autore, come per quei filosofanti medievali, sono meri flatus vocis. Leggi la famosa canzone del Petrarca: Italia mia, benchè il parlar sia indarno; leggi la invettiva dantesca: Ahi serva Italia di dolore ostello; leggi le Fantasie di Giovanni Berchet; leggi fin que' miseri epigrammuzzi di Vittorio Alfieri; ed innanzi alla tua mente starà chiara e viva un'immagine di questa tua patria; ognuno di que' sommi me l'ha rappresentata com'e' l'ha sentita, come la sua fantasia gliela raffigurava o presente o futura. Ma non sente, non ha viva in sè l'Italia nostra, colui che parlandone a Gesù Cristo in paradiso, la chiama:
La terra tua, però che là su un (ahi!) sacro
Colle, di voti e di laureti adorno,
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La verginella ebrea,
Che ti fu madre, un giorno
La poveretta casa deponea.
Ma che? tutta l'istoria e la gloria nostra non è dunque nulla per l'animo di costui? La bellezza di questa terra, la virtù di questo popolo, sono cose tanto estranee alla sua coscienza, che per raffigurarmi l'Italia ei dà di piglio alla casa della Madonna? E se almeno fosse un picchiapetto, un bigotto, un uomo religioso; e ci credesse davvero alla alleata casa! se fosse di quelli che, andandovi in pellegrinaggio, piangendovi di tenerezza, stimano gloria maggiore per la patria l'esserne depositaria, anzichè di tutti i trofei romani! Ma, nossignori, rettorica pretta! e' se ne ride e tutt'al più concede con lo Astigiano che sia Pur men risibil delle antiche dee. Quanto alla cacofonia del su un, so che potrebbe tentare di scusarla, citando il Furioso (Canto II. Stanza XLI.)
Che nel mezzo, su un sasso, avea un castello
Forte e ben posto e a meraviglia bello.
Allora si pronunziava e taluno scriveva s'un; contrazione che non so quanto si ammetterebbe adesso.
Pure queste parole dolcissime Italia e Libertà, per quanto sia vuoto di sentimento chi le pronuncia, possedevano e posseggono una strana virtù: di strappar lacrime agli occhi, di strappar plauso alle mani; come il nome della diletta che circonfonde per noi d'un'aureola le più schifose creature. La più stupida uscita contro i tedeschi, procaccia agli attori una sfuriata di battimani: ed insomma la popolarità della Francesca da Rimini di Silvio Pellico per tre quarte parti si deve alla fragorosa apostrafe all'Italia. Ogni strimpellator di violino che scortichi pe' caffè l'Inno di Garibaldi è sicuramente applaudito e raccoglie soldi assai nel vassoino; prima, perchè ricorda agli acculattatori delle panche una persona che loro è [pg!31] simpatica; poi e soprattutto perchè sanno di fare un dispetto ai questurini. Ed il ripeter sempre Italia e Libertà, ha procacciato il favor popolare all'Aleardi; ha coperto d'un pampano la sua nudità poetica.
Riguardo poi all'ostentarci di continuo il martirio di quei pochi mesi di prigionia.... cazzica! io non sono tanto offeso esteticamente dal modo in cui se ne parla, quanto moralmente dall'udir tanto baccano per tanta parvità di materia: much ado about nothing. Ma venne osservato già da un pezzo, come ne' rivolgimenti politici chi meno si lamenta è sempre chi più perde; e viceversa chi fa più bordello è sempre chi meno ha sofferta. Noi, giovani della nuova Italia, educati negli esilî all'odio aperto od in patria all'odio coperto delle tirannidi; avvezzi a considerare come avvenire inevitabile e desiderabile gli ergastoli ed i patiboli sortiti da' nostri maggiori; noi, che tutti, tranne pochi dappochi e gl'impediti da forza superiore, abbiamo indossato o la tunica del soldato o la camicia del volontario; noi, consueti a non calcolar mai per ostacoli le minacce ed i pericoli; noi, che s'è mostrato di essere uomini e di meritare d'esser liberi; noi, ci perdoni l'illustrissimo signor commendatore Aleardo Aleardi; non siamo, noi commossi da chi guaisce quasi femminetta per breve carcerazione o non lungo sbandeggiamento, consolato da stipendî malguadagnati. Forse nell'epoca slombata anteriore al milleottocenquarantotto, nell'epoca frustata da quel Giuseppe Giusti che il signor commendatore Aleardo Aleardi fatuamente chiama il suo povero Beppe, forse allora si scroccava un brevetto d'eroe, di martire, mercè d'una visita domiciliare o d'una detenzioncella preventiva. Ma ora!... Quanti hanno sofferto viemmaggiormente; e, quel che più monta, operato qualcosa; ed illustri non ci rompono gli stivali col raccontarcela sempre daccapo magnificando; oscuri, non pensano neppure a farsi valere! E che direbbe il signor commendatore Aleardo Aleardi se avesse vissuto come Luigi Settembrini metà della vita fra 'l carcere [pg!32] e la galera e settantadue ore in confortatorio? sempre uomo ed allora e prima e dopo? Ed il Settembrini di tutto parla e fors'anche (anzi senza forse) non di tutto tutto a proposito; ma degli anni e delle