L'ora topica di Carlo Dossi. Gian Pietro Lucini

L'ora topica di Carlo Dossi - Gian Pietro Lucini


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e le passeggiate sott'acqua, le visite dei Reali ai disastri siciliani, e di Fregoli al Papa, le scialuppe e li emetici curialeschi e di Assise, li elettuari fogazzariani, le cantaridi, finalmente ribassate di prezzo e di valore, d'annunziane, le acque sporche di polveri virgiliano-romaniche del Pascoli e via via: il costume non si rimutò.

      Anche tutt'ora, codesta rivendita di parole stampate ad uso della borghesia fannullona ed arrivata maschererà, sotto un interessamento d'imprestito, dovuto al nome formidabile dell'editore letto sopra la copertina delle recentissime opere complete dossiane, la sua malagrazia e sopra a tutto la sua supponenza spaventata e melensa davanti alla gratuita sincerità. La paura non è a fatto tranquillizzata, non le fobie persuase, non l'ignoranza confessa: tutte queste stigmate morali si ereditano atavicamente; i figli, nuovi accademici, patiscono le stesse malattie; e, se oggi, per rispetto umano, o per millantato credito, andranno al richiamo di chi scrisse la Desinenza in A, minimamente la comprendono, nè la lessero.

      Avevano i padri trovato già temerari Mantegazza ne' suoi saggi popolari scientifici, Cremona nella sua pittura, Grandi nel suo Beccaria, Torelli nella dramatica. Il loro gusto aveva applaudito e si era imparadisato alla nuova e mengoniana. Galleria Vittorio Emanuele, alla statua di Rossini di fresco eretta, nell'atrio della Scala, alla oleografia della Stuarda del Valaperta, esposta a Brera, all'Olema melopea romantica e spappolata, che furoreggiava dalle ribalte liriche milanesi. A buon diritto, La Fidanzata russa del Fontana, il Mefistofele del Boito venivano biasimati. E, l'utile, proprio come oggi, era proposto all'ideale, sogno, utopia, fola. Essi si erano domandato: «Che pazzia è mai questa del Dossi, di scrivere senza la falsariga comune e di non curarsi delle vecchie ed autorevoli penne d'oca della critica?» E molti se lo domandano di bel nuovo.

      «Che ci viene a fare quest'uomo, eccesso verbale, scrupolo di onestà letteraria, che scrive l'opera, non della stagione, ma nel tempo; cui vediamo armato d'ogni arma, che ci racconta senza rispetto, «tra[2] gli scrittori abortiti, in professori di belle lettere, tra gli spulcia codici, i puristi, gli etimologisti», tutta roba seria e patentata; i quali riguardano con sospetto il libro nuovo, senza pensare che i nascituri, saranno, per esperienza, molto più doviziosi delle miriadi de' loro antenati?» Tornano a dire i recentissimi, pe' quali la resurrezione tipografica di Carlo Dossi non sarà sufficiente a commuovere, nella pigrizia del loro cuore venoso, un palpito più affrettato di snobismo.

      Ma altri si mostreranno col sorrisetto della accoglienza, verso di lui; altri epigoni di quel giornalismo, di cui sopra, ripassati da un nuovo strato di biacca, riconfortati sul nero fumo confessionale, sul roseo sporco del liberal-conservatore; e vorranno, per estemporaneità, dimenticarsi delle antiche e paterne ingiurie avventate contro di lui. Pure, la discendenza è diretta: le parole ch'egli raccolse ne' Margini, nelle Etichette, nelli Invii, preposti alle prime edizioni a difesa e ad offesa, gli giovano tuttora. Giovano contro li eredi della cronachetta bonghiana suadente ad ogni mercede, per li usufruttuari dell'inconfessato livore baseggiano, ai continuatori della pratica grettezza inelegante e veramente costituzionale della mecanica giornaliera di un Torelli-Viollier, compilatore di diarii arroganti, plurireddittuari, in quest'ora bassa, senza ideali di giustizia, per cui è lecito scrivere senza entusiasmo e libero abbandono; dileggiano li ultimi scolari di un Verdinois buon anima, anguilla, a sgusciarti dalle mani.

      Furono in allora, e sono anche qui, quelli rimasti in sui confini delle comode legalità, quelli, che sono sempre responsabili delle loro azioni, e ne pagarono li eccessi di persona; i sovversivi, insomma, coloro che fecero e fanno gran caso della personalità letteraria di Carlo Dossi, sbandierandola dalle loro gazzette: furono essi, che lo posero all'avanguardia del pensiero civile, foriero di estetica e lo difesero. Furono i nostri critici di pura tempra repubblicana, come il Dario Papa, le nostre riviste sbarazzine come La Farfalla, insignita dalla bella testolina sorridente di Tranquillo Cremona, che, contro tutto e tutti, conservarono alla democrazia l'aristocratico fascino della cultura umanistica, rappresentanti diretti della italianità di genio, continuatori del pensiero di Romagnosi, di Cattaneo, di Mazzini, della poesia di Foscolo; i generosi di sangue, d'audacie e di sacrifici, quelli che lo presero in sicurtà e che tuttora lo difendono colla mia penna.

      La presente opportunità alli altri, forse, farà loro dimenticare. Non vorranno accorgersi, che, se Carlo Dossi taglia ancora con buona lama affilatissima dentro la loro carne viva, non potranno affidarsi all'aiuto d'Alberto Pisani, uomo ufficiale d'ordine e decorato, perch'egli ne medichi le piaghe, colla preghiera di scusargli il fratello irritato ed impulsivo, come dev'essere ogni artista. Ambo, oggi, hanno moltissime ragioni e diritti per colpire insieme; perchè grave la doppia ingiuria venuta contro di loro da questa parte, e la patirono insieme, generosamente in silenzio, ma non ismemorati di nobile vendetta. Si facciano dunque in là col melenso sorriso della accoglienza. Il tempo insiste ma non rimuta nelle intelligenze i loro pensieri atavici. Noi diffidiamo delle loro attestazioni troppo in ritardo per essere sincere.

      Non importa. Attualmente concorre a lui la schiera giovanissima; e, se il Cœnubium luganese domanda alli intellettuali il titolo dei quaranti volumi da loro preferiti, Pio Viazzi, esteta e legislatore, si piace di comprendervi le opere dossiane. Dossi, intorno a sè, sente il suffragio riverente delli ultimi venuti di sulla letteratura, di coloro che incominciano: siano Gustavo Botta, umanista di garbo libero e schietto; o Monneret de Villiars, il cordiale illustratore del Giorgione; siano Alessandro Casati, patrizio milanese, in cui vigila il buon ingegno che fu genio in Beccarla; o F. T. Marinetti, che lo confessa con passione e scandalo di futurista; o Carlo Linati che rinnova, in Cristabella, Goccie d'inchiostro; o il vecchio Loforte-Randi, spirito inquieto, odiatore della pagliacceria d'annunziana, indipendenza ardita e geniale da riconnettere Nietzsche a De Maistre, coraggioso di una sua Verità, che contrasta con quella di molti, che vanno per la maggiore ed hanno maggior tomo, solitario filosofo in vedetta, che non dimentica, e col quale amo dibattere e schiettamente ammirare.

      Fresche e viride giovinezze d'arte sentono, nell'aria, pungere l'ossigeno dossiano. Lo stacciano dalla lenta e bassa atmosfera coi loro alacri polmoni e se ne nutrono. Non conoscono direttamente l'opera purificatrice e di costanti prerogative, la pompa attiva che erutta polle sane di fecondità; ma ne presentono, per simpatia, la presenza d'intorno; vi si orientano ne mandano, araldi e trombetti, proiezioni di loro stessi, le loro opere adolescenti, in cerca. Sia Cesare Giulio Viola, che sofre serenamente, e ricompone la lieta e triste espressione de L'altro volto che ride, in cui, la Terra avvicenda le stagioni, a paragone dell'animo del poeta, col nascere ed il trapassare dei fiori, mentre i paesaggi cittadini prendono nome, persona e dramatica umana più grande essendo la pietà del poeta dove maggiore è il peccato della donna: sia Mario Puccini, che dà a sfogliare, pagina per pagina, arrugginite, color d'autunno, come le rame delli ontani patullati dal vento, le foglie della Canzone della mia Follia, contro cui si destreggiano le lancette flebotome dei cruscanti ed imbizzano le replete e disturbate digestioni dei settuagenarî inostricati universitaria pedanteria; — Mario Puccini, che se vuol darsi l'aria del critico dimostra di sentire, ma di mal comprendere il Dossi.

      Così, nel Portico dell'Amicizia, che, nel suo palazzo del Dosso, Alberto Pisani volle eretto e consacrato alli amici dell'altro sè stesso, una colonna si istoria e professa, vicino a quella dedicata alli utili nemici, cento trenta nomi oscuri affatto, annubilati ambiguamente, o preclari a risplendere coloro che lasciarono traccia del loro passaggio sulla terra e nel suo cuore. Coloro che inviarono, dalle terre italiane, senza ch'egli celebrasse, come altri minimi, giubilei, le loro frasi timide, comprese, richiamate e gloriose; dalla povera maestrina provinciale che si effonde, esclamando, al letterato in voga; dal filosofo eminente, al viaggiatore illustre; voci di un popolo affratellato, nel saluto e nella riconoscenza, verso chi partecipò loro la malinconia di Alberto Pisani: l'umana carità di Regno dei Cieli; la filosofia agita, nelle parabole e nelli apologhi di Goccie d'inchiostro; l'utopia di Colonia Felice; il sarcasmo scettico e crudele di Desinenza in A; le tenerezze gioconde e tristi di Amori; le amaritudini di Ritratti umani; le acute ed ironiche piacevolezze di Fricassea critica; la storia sentimentale, e, per questo, più vera, di mezzo secolo d'arte, Rovaniana.

      Gli si confidarono solleciti, li anonimi, li sconosciuti, colle attestazioni umili che, per la loro indeterminatezza, prendono il valore simbolico del


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