L'ora topica di Carlo Dossi. Gian Pietro Lucini
delle Università, Calvino dei Consigli municipali, Tsar nel Consiglio superiore della così detta Pubblica Istruzione; rudere dovunque senza genitali, e perciò crudele, com'ogni essere mal riuscito, salito a dominare, sopra una pattuglia, quattro panche di scuola, un bidello, un diploma cartapecorino.
Carlo Dossi, giovinetto di sedici anni, si battesimava dentro quest'acqua fervida e ghiacciata, lustrale, di continuativa e preservativa efficacia: sulla Palestra deponeva la sua prima e pubblica offerta. Uno dopo l'altro, apparivano i bozzetti brevi di mole, ma già preziosi: Valichi di Montagne, Viaggio di Nozze, Tesoretta, Istinto, Balocchi, La Casetta di Gigio. Allora «la[7] curiosità del pubblico, stomacata dalle ultime risciacquature neo-cattoliche, e dalla meschina fioritura di romanzacci patriottici e meneghini, onde fu straricca la produzione letteraria del periodo immediatamente seguito al ciclo eroico del 1848-60;» gli si era rivolta benigna. «Ed in[8] mezzo ad una moltitudine dalle faccie uniformi, dalla apparenza antiquata, dalle vesti disusate; fra tutte queste voci, che cantano all'unisono un coro di metro e di ritmo pallidamente cinquantenne, ecco apparire, miracolo nuovo, il Dossi; ecco, sorgere la voce di questo giovanetto, che osa torsi dalla nojosa e pedestre eufonia delle voci comuni, per inalzarsi a regioni sconosciute, ricca di tutti i tesori che la giovanezza, l'amore santo del bello, una intelligenza eletta, una delicatezza femminea quasi, tanto è fine ed aerea, possono fornire.» — Esso è qui, dai primi passi, fatto e completo; presenta una sua formola semplice, non si dimostra in divenire, ma nella attualità; li anni nulla hanno aggiunto o tolto al suo modo di vedere, mentalmente, e di rispondere alle sensazioni letterariamente; i suoi pregi ed i suoi difetti sono li stessi e nei primissimi Valichi di Montagne e nelli ultimi Amori. «Probabilmente[9] il Dossi» intuiva con rapida critica il Capuana, «non cercherà più di emendarsi e di correggersi; temerà di perdere qualcosa della sua fiera individualità e ostinerassi a rimanere qual'è. Ha torto? Chi lo sa? Potrebbe darsi che no.» — Certo no, sono le sue virtù; rimangono e rimarranno la sua forza.
Giuseppe Rovani s'era tolto in mano il manoscritto di Valichi di Montagne, di L'Altrieri; colloquio breve intenso, saporito, con quest'anima adolescente, che gli veniva davanti per la prima volta, spoglia, perchè vestita di quella sua giusta letteratura; ed egli la sentì sotto i suoi occhi e sotto le sue mani nuda, fragrante, fremente, Luigi Perelli scriveva all'amico:
«Ti scrivo su di una busta, che mi trovo per caso in tasca, queste parole di Rovani: «ho lett pocc pagin de quell'affari; ghe assicuri che l'è de publicass;... ghe intuizion molto pronunciaa d'artista e della bonna voeuja de fa della lingua. Sta nott leggi el rest; e se domenica el ven a trovamm, ghe dirò quel che incoeu pos no dì».
Tornò Luigi Perelli, di sera tarda, all'illustre e definiva:
«Rovani si svegliò ieri notte alle 11. Mi guardò, mi sorrise, mi stese la mano; strinse la mia, poi mi disse: «Che le publica quel lavor; quel giovin che l'ha scritt l'è artista, el pittura ben;... l'è propri un bel sagg de gener descritiv; in somma (ridendo ed atteggiandosi) — Ne consiglio la pubblicazione — Ecco el me giudizi! Il lavoro parlerà da se quando sarà stampato. — Dixi» Addio di cuore tutto tuo; Perelli, 23 aprile 1868».
Provvisto di questo sicuro viatico, amministratogli da Giuseppe Rovani, che avrebbe rassicurato qualunque novello autore per le climateriche avventure della letteratura, dopo Valichi di Montagne, valicava il Rubicone della pubblicità, infossato ed insidioso, tra li scogli della disconoscenza, dell'ambizione delusa, del livore, dell'odio mascherato da consigliere e da emascolatore, L'Altrieri, un volumetto di centotrentanove pagine, stampato dal tipografo Lombardi di Milano in cento esemplari; opera rarissima oggi a ritrovarsi. Il Demone l'aveva preso definitivamente in signoria, e Carlo Dossi vi si era impersonato; per più di vent'anni visse esclusivamente in lui; poi, voltosi per altro campo, le sue distintive qualità non lo abbandonarono e parve tacere; più secreta e più preziosa, l'onda continuava a zampillare, dai mille giuochi ipogei della vena turgida.
Per cui, se alcuno s'arresta alla superficie, ignora o fa caso semplicemente del banale empirismo, e viene a giudicarlo dal suo fatto pubblico di letteratura, e lo accorge arrestarsi a metà della sua vita, può ripetere, errando come Benedetto Croce in sulla Critica (Fascicolo VI del 1905) lo parole che il Guerrazzi dedicò a Tomaso Grossi: «aveva ricevuto da natura una bottiglina di olio finissimo; e presto l'ebbe tutto versato.» Ma a chi fu dato da Carlo Dossi l'onore e la massima confidenza di saperlo intiero e schietto come un cristallo; a me, cui si espose in ogni positura d'animo, confidò ogni segreto, ogni piega più oscura, distese davanti tutte le pagine dalle composte alle interrotte e sospese; a me, è pur anche concesso di dire, con una sua frase che ribatte all'altra del critico hegeliano di Napoli; «Nella mia vita di scrittore, tutti non hanno potuto non rilevare delle interruzioni; queste non sono che apparenti. L'energia intellettuale, in me, non fu mai sospesa, ma si trasformò solamente nei vari campi pei quali passò, sotto l'invito delle circostanze, e dove sempre ha lasciato una traccia letteraria.» Egli ha veduto con pupilla di artista anche la menzognera diplomazia cui fece schiettezza e generosità, come la polverosa e barocca archeologia, cui infuse di vita ed espose, a simiglianza di una poetica, giovane ed in azione, nel paese classico delli antiquati fegatosi e tabacconi, avari, ma rimpolpettati di superbia e d'ignoranza. Però che Minerva li nutre, li protegge, li addotta; in fine, li crea Ministri della nostra miseranda pubblica istruzione, in cui tenzonano la tirchieria e l'analfabetismo con bel seguito di pellagra e di delinquenza esemplare, veramente italiana.
III. GENIALE EBEFRENIA
Codesta precocità lo invasa ed instaura, senz'altro, a nostro predecessore morale; codesto nuovo attributo, ch'egli assegnava al libro, libro-vita, libro-carità, libro-dolore, per cui la carta agisce per sè, si riproduce solidamente ricostruita di voce e di volontà, battaglia, o schermo alle nostre soferenze, lo aveva reso, senza che egli lo accorgesse, precursore di Mallarmé: «Il Libro, espansione totale delle lettere, è un tacito concerto morale; è la persona stessa del poeta, se insiste sopra di un suo dolore, di una sua gioja, di una sua malinconia, di un suo disinganno.»
Ora, chi discese da Mallarmé? Chi discende da Carlo Dossi? Noi; un Alberto Pisani ci aveva preannunciati, uscito da un Guido Etelredi suo avatar di L'Altrieri; si continuerebbe nell'Impenitente, che, dopo La Desinenza in A, dedicherà alla Geniale la confessione piena ed intera di Amori: Carlo Dossi, iperemico di genio, ipertrofico di coltura, s'ammalava d'ideale e di belle lettere italiane. Egli era in pubertà; pubesceva con lui la città che abitava, Milano; adolesceva la Patria; era pur logico tutti patissero, senza avvisarli, passaggi inquieti d'ebefrenia; l'epoca li richiedeva. Sia per la collettività di un eletta di popolo, romanticismo, sia per l'elezione di un individuo, simbolismo, le cellule prime, o l'aggregato di cellule, rispondono a dei dolori vaghi ed innominati che li vanno martoriando senza lasciarsi attutile e vincere, perchè ne nascondono, misteriosamente, le ragioni. Sono i dolori innominati, non forti, ma insistenti, non decisi, ma continui, che vanno perseguitandoci senza localizzarsi, che formano, vagamente ma realmente, il nostro malessere, uncassines li chiama Locke i senza causa; ciò che ne accenna l'avvertenza morale di sofrire la vita.
Epoca ibrida e dolorosa; vi si aspetta qualche grande avvenimento; il giovanetto attende l'amore; l'estetica fa allora eccesso e non difetto; vi si conoscono le ipertrofie sentimentali a profitto del culto del bello; si pretende e ci si crede qualche cosa di più e di diverso di quanto siamo; interviene il bovarysmo. Giornalmente, vengono a ferirci, con temprati bisturi sapienti, la noja, l'umiliazione, il dispetto, sensazioni morali male definite e peggio conosciute, che si fondono nel tædium, non quello latino e stoico per cui Petronio elegge la morte alla vita, ma quello di Leopardi, di Hartmann, di Schopenhaurer, che, pur lamentando di vivere, non si lasciano morire.
Vi si cerca qualche cosa di più che l'ordine di natura non può, per ora, concederci; ed intanto, la crescita normale accelera il suo processo febrilmente. La crisi, nell'esistenza maschile, si riassume una volta per sempre nello spazio di un lustro; qui convengono a svampare i vapori periodici e catameniali che tormentano le feminilità puberi, le