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La novellaja fiorentina. Vittorio Imbriani
rel="nofollow" href="#u42218321-4d9e-4f16-8757-3dbf29acf192">[1] Variante delle due fiabe precedenti. Narrata da Ferdinando Giovannini, sarto, del Montale—Pistoiese; e raccolta dall'avv. prof. Gherardo Nerucci.
[2] Assieme, insieme.
IX.
IL CANTO E 'L SONO DELLA SARA SIBILLA[1]
C'era una volta un Re d'una gran città, che ogni mattina all'otto voleva dell'ova a bere, ma fresche; motivo per cui il su' servitore andava per le strade a girare e gridava:—«Chi ha ova fresche da vendere pel Re?»—Una mattina che passava per una straduccia for di mano, questo servitore sentètte delle ragazze che discorrevano in fra di loro in una casa; sicchè lui si fermò per sapere quel che loro dicevano. Le ragazze erano tre, insenza mamma, nè babbo; e campavano la vita con il su' lavoro. La maggiore dunque diceva:—«S'i' potessi aver per isposo il fornaio del Re, i' farè' pane in un giorno solo quanto ne mangia la corte in un anno. Mi garba tanto quel giovinotto!»—Doppo di lei disse la mezzana:—«E i' vorrei per isposo il vinaio del Re, chè mi va a genio! e con un bicchier di vino vorrè' 'mbriacare tutta la corte.»—Ma la più piccina, che l'era anche la più bella:—«Io poi vorrei per isposo il Re; e se lui mi pigliassi, gli vorrè' fare a un parto du' bambini con una collana d'oro al collo, e una bambina con una stella in sulla testa.»—Ritornato al palazzo il servitore, in quel mentre che lui vestiva il Re, gli raccontò i ragionari di quelle tre ragazze. E il Re incuriosito disse al servitore:—«Vammi a chiamà subbito la maggiore, chè la voglio vedere»—Quando la maggiore gli ebbe quell'ambasciata, tutte e tre le sorelle si sturbarono, perchè avean paura per il discorso fatto dalla più piccina; ma bisognò ubbidire al Re, che è quello che comanda. Arrivata in presenzia del Re, lui volse risapere da lei che discorso aveva fatto. E non gli valse lo scusarsi, che eran parole di chiassata, perchè lui le volse in ogni mo' risentire da lei Sicchè lei gliele disse.—«Non c'è nulla di male,»—disse il Re:—«Si chiami il fornaio e sarà subbito vostro sposo.»—E così fece.—Doppo mandò il servitore che gli menasse la sorella mezzana, e anco lei fu obbligata a rifargli quel discorso sentito dal servitore; e il Re la contentò col dargli il vinaio di corte per marito. Finalmente si viense alla più piccina delle tre sorelle. Bisognava vederla, genti mia! come l'era bella e garbosina, cogli occhi neri e co' capelli neri! e di più, per la vergogna, era diventa rossa rossa in viso.—«State vispola,»—gli disse il Re,—«e non abbiate sospetto. Voglio soltanto che mi ridiciate da voi le parole che v'enno sortite di bocca a udita del mi' servitore. Via, su, dite.»—Lei proprio non sapea da dove cominciare; ma poi, fai e rifai, si diede coraggio:—«Maestà,»—disse,—«si diceva per dire, così per chiassata, insenza un malo pensiero. Gua'! dissi, che se il Re mi pigliava per su' legittima sposa, i' gli arè' partorito, tutti assieme, due bambini colla collana d'oro al collo, e una bambina con una stella isplendente in sulla testa.»—«E saresti bona a mantiener la promessa?»—«Di sicuro, Maestà, che mi credo capace di mantienerla.»—Allora il Re, che a sentirla parlare se n'era innamorato, gli disse:—«Vi piglio in parola, e sarete la mi' legittima sposa, e Regina in sul trono.»—E doppo averla fatta 'struire con una bona educazione, seguirono le nozze con grandi allegrie per tutto il Regno, e le sorelle della Regina il Re gliele messe a servirla in corte per su' compagnia. Ma loro non ci s'adattavano a esser da meno, e l'astiavano con un rodimento di core, che non si pole raccontare; e se gli potevan far de' dispetti, non si risparmiavan mica. Passato del tempo, de' mesi, via, la Regina era gravida e al Re gli toccò a andare alla guerra e lassarla sola nel palazzo; ma lui, prima di partire, la raccomandò a tutti e alle sorelle, che gliela tenessin bene e l'ubbidisseno ne' su' comandamenti, e che poi scrivesseno al campo quando lei partoriva. Difatto la Regina, quando fa il su' mese, partorì du' be' bambini colla collana d'oro al collo e una bambina colla stella luccichente in sul capo. Figuratevi l'ascherezza delle su' sorelle maligne! Che ti fanno? S'accordano assieme; e di niscosto, che nissun se n'avvedde, cavonno dal letto quelle tre creature e ci messano invece du' cani e una cagna; e poi, diviato scrissano al Re che la Regina aveva mantienuto la su' promessa a quel modo, col partorirgli du' cani e una cagna. Quando il Re lesse la lettera cascò 'n terra istramortito dal gran dolore; ma rivienuto in sè, mandò ordine in corte che la Regina fusse in nel momento presa e murata viva a piè della scala di palazzo, e che tutti quelli che passavano di lì, pena la testa, gli avessino a dare uno stiaffo o sputargli 'n faccia; e le sorelle eran sempre le prime a fargli quelli spregi e la martirizzavano quella povera donna innocente in tutte le maniere. Ma torniamo alle creature, che le zie avean cavato dal letto della Regina. Loro mandonno a chiamare una vecchiaccia, di nome Menga, e gli dissano:—«Piglia queste creature, mettile in una scatola di legno e buttale in mare, chè l'affoghino. E bada di stare zitta, se ti garba la vita.»—Poi alla vecchia gli regalorno di molti quattrini; e lei, ubbidiente al comando, se n'andiede al mare e ci buttò la scatola colle creature dientro: la scatola imperò, perchè era di legno, rimase a galla, e l'acqua, dimenala di qua, dimenala di là, la fece approdare a un'isola, in dove steva un eremita. Quest'eremita un giorno spasseggiava per la su' isola e vede a un tratto la scatola in sulla spiaggia: lui corre e la piglia di peso in mano e l'apre e rimane com'un allocco a trovarci dentro quelle tre belle creature vive, ma che cominciorno a piangere dalla fame che avevano. L'eremita ritornò subbito alla su' capanna; e siccome[2] teneva delle capre, gli messe sotto le tre creature, che poppavano poppavano, e non ismessero se non quando satolle. A questo modo l'eremita rallevò le creature; e quando le furon cresciute, gl'insegnò a leggere e a scrivere; e in su i tredici o quattordici anni, i ragazzi andavano a caccia per il campamento, e la ragazza badava a casa e lavorava. Ma poi, doppo del tempo, l'eremita sentì di dover presto morire; gli prese un male, che non ci fu scampo; le coja vecchie tanto non reggono! Allora lui chiamò intorno al su' letto i ragazzi e la sorella e gli fece un bel discorso, che stessin d'accordo e si volessin bene, e che i fratelli difendessino sempre la sorella, e che forse, abbenchè poveri a quel mo', potevan col tempo diventar ricchi e ritrovare i genitori; e alla ragazza gli regalò una bacchetta fatata, che picchiandola in terra compariva quello che si voleva; e doppo rendette l'anima a Dio. A mala pena che l'eremita fu spirato, con pianti e lamenti loro gli dettano sepoltura e poi pensorno al modo di sortire da quell'isola, e colla bacchetta fatata la ragazza comandò d'esser tutti portati in nel Regno vicino. Quando si trovorno in terra, camminavano insenza sapere che strada era quella, e a bujo eccoteli tutti e tre in mezzo a un bosco, con una fame che proprio non ne potevan più. Dice il maggiore:—«Qui bisogna fermarsi. Sorellina, via, colla tu' bacchetta fa' comparire qualche cosa di bono.»—«Volentieri,»—disse lei:—«farò comparire un bel palazzo tutt'ammannito a darci albergo e con una cena imbandita in sulla tavola.»—E pigliata la bacchetta, in un battibaleno, appare il palazzo, ma ricco, con tanti lumi, e la cena in sulla tavola; sicchè non fecien'altro che entrar dientro e mettersi a siedere a mangiare. A farla corta, que' tre stavan lì come in casa sua; e i ragazzi sortivan fori tutte le mattine a cacciare, e la ragazza teneva il quartieri ravviato o leggeva o cuciva, secondo come più gli garbava. Infrattanto il Re lo rodeva sempre la passione: dalla guerra gli era torno vincitore, ma a vedere la su' moglie murata lì a pie' della scala, non si poteva dar pace, e se non fussi stato per la su' parola di Re, l'avrebb'anco fatta le mille volte levare da quella pena. Ma per isvagarsi, lui sortiva quasi ogni giorno la mattina presto, e andava pe' boschi a caccia; e gira e gira, sicchè quando ritrovava il palazzo gli era tanto stracco, che non si reggeva in piedi dallo strapazzo. In somma, una volta gli accadde che lui si smarrì per un bosco, e aveva perso la via a rivienirsene alla città; sicchè a notte fatta, per non essere sbranato dagli animali, abbenchè avessi detto a ogni momento che per lui era meglio morire, s'arrampicò in vetta a un albero folto coll'idea di aspettar lassù il giorno. In nell'assettarsi per non cascare, vede a un tratto un lumicino lontano lontano, e ripensò che ci doveva essere qualche casa laggiù in fondo: scende e s'avvia per quel verso; e tanto camminò, che alla fine viense per l'appunto al palazzo de' su' figlioli: ma lui non lo sapeva che gli erano i su' figlioli. Picchia al portone