La novellaja fiorentina. Vittorio Imbriani
di questa dimanda. Il pranzo è imbandito, ma i giovani non mangiano altro che quello che l'Uccel Bel—Verde becca. Gli aveva detto che non dovevano mangiare altro che quello che lui avrebbe beccato. Alla fine del pranzo l'Uccel Bel—Verde chiede di poter contare una novella. Il Re è beato, la Regina madre si turba. L'Uccel Bel—Verde principia la novella raccontando la cacciata del Re; il ritrovamento della Uliva; il parto della Principessa che non aveva fatto tre cani, ma tre bei figli; ma che la Regina li aveva mandati in un bosco per essere ammazzati. Quello che doveva ammazzare i bambini ne ebbe compassione, li fece educare e poi li fece impiegare guardie della Regina. La Principessa del Re languiva da diciott'anni dentro una prigione e l'unico servo fedele della Regina era consapevole di questo misfatto. A questo racconto la Regina sviene; il Re monta in furore; si percorre il palazzo reale; si trova la povera Uliva quasi in fin di vita. L'uccello dice di essere una fata e di essere venuto per salvare quelli innocenti. La Regina madre muore di dolore. Il Re ritorna nel suo florido stato; amato dalla moglie e dai figli è ricompensato di diciott'anni di patimenti. La Regina è riconosciuta per figlia del Re d'Inghilterra; e una pace durevole si strinse fra quelle due nazioni.
NOTE
[1] A questa novella ed alla precedente, annota il Liebrecht (art. cit):—«Zu Grimm. K.—M. N.º 96. De drei Vügelkens; vgl. zu Gonzenbach N.º 5. Die verstossene Königin und ihre beiden ausgesetzten Kinder. Das von Grimm und danach von Köhler gemeinte Märchen der 1001 Nacht (von den beiden neidischen Schwestern) befindet sich in der Uebersetzung (Breslau, 1836) Bd. x. S. 3. ff. (Nacht 426).»—La fiaba presente è una variante importantissima della precedente, dettata da colta signora. Difatti non ci trovi sgrammaticature, non idiotismi; tutto va per la piana e secondo le regole. Ma.... io antepongo il dettato della mia povera ciana analfabeta. In questa forma, ha maggior somiglianza con la Novella Prima della giornata decima del Pecorone:—«Il Re d'Inghilterra sposa Dionigia, figliuola d'un Re di Francia, che trova in un convento dell'Isola. Partorisce due maschi in lontananza del marito; ed obbligata, per calunnie appostele dalla suocera, a partirsi, con essi va a Roma. In quale occasione riconobbero i due Re con estrema gioja, l'uno la moglie e l'altro la sorella.»—Confronta anche per alcune parti con la Novella della pulzella di Francia, dove si racconta l'origine delle guerre fra i francesi e gl'inglesi di messer Iacopo di Poggio Bracciolini, occasione d'interminabili polemiche letterarie; e con la Penta Manomozza, trattenimento secondo della giornata terza del Pentamerone.—«Penta sdegna le nozze de lo frate e, tagliatose le mano, ce le manna 'mpresiento. Isso la fa iettare drinto 'na cascia a mare; e, data a 'na spiaggia, 'no marinaro la porta a la casa soja, dove la mogliere gelosa la torna a iettare drinto la stessa cascia; e, trovata da 'no Re, sse nce 'nzora. Ma, pe' trafanaria de la stessa femmena marvasa, è cacciata da lo Regno; e dopò luonghe travaglie, è trovata da lo marito e da lo frate e restano tutte quante contiente e conzolate.»—Così viene a confondersi con la Leggenda di Sant'Uliva (per la quale vedi: La Rappresentazione di Santa Uliva riprodotta sulle antiche stampe, Pisa, fratelli Nistri, 1868, e la dotta prefazione appostavi dal cav. prof. Alessandro d'Ancona; nonchè la Novella della figlia del Re di Dacia, testo inedito del buon secolo della lingua. Pisa, tipografia Nistri, 1866, e la dissertazione premessavi da Alessandro Wesselofsky). Popolarissima è la Istoria della Regina Oliva, figliuola di Giuliano Imperatore e moglie del Re di Castiglia, ad istanza ed esempio delle persone timorate di dio. (Ne ho sott'occhi la edizione di Bologna, 1875. Alla Colomba. Con permissione). Di questa Leggenda avremo occasione di riparlare; frattanto, per tema di dimenticar la citazione, a proposito di Penta od Uliva, che si amputa, mozza, recide le mani, perchè il padre od il fratello le dicono di essersi innamorati di lei, a cagion della bellezza di quelle, porrò qui alcuni versi che Luigi Groto, nel Pentimento amoroso, pone in bocca a Dieromena:
Chiusa in silenzio eterno, in erme tenebre,
Dove nè tu nèd altri più mi veggiano,
Piangerò l'altrui fallo e 'l mio martirio;
E questi occhi che spesso ti mirarono
Come rei mi trarrò dal capo (fossero
Stati ciechi così già alquanto spazio!),
O si risolveran piangendo in lagrime.
E queste man, che sole tocche furono
Da te, come nocenti, (poi che furono
Tocche da man profana, immonda e perfida,)
Troncherò da le braccia, e a me medesima
Che 'l resto conservai renderò grazia.
[2] Uccel Bel—Verde. Vedi Gherardini, Supplimento, Vol. VI, pagina 196.
[3] Impietrimenti, statuificazioni si ritrovano narrati con molto ingegno e spirito, non solo nella fiaba della Posillecheata, che è perfetto riscontro di questa, e dove si racconta argutamente l'origine di parecchie statue che adornavano Napoli (alcune delle quali ci furon poi rubate dagli spagnuoli), anzi pure nella Pietà remmonerata, conto primo della Possillechejata stessa. Trasformazioni in pini ed in istatue nella Cinzia di Filippo Finella (Napoli, M.DC.XXVI). Altre trasformazioni in moltissime favole pastorali, nel Capriccio del Guidozzi (Venezia, M.DC.VIII); ne' Frutti d'Amore di Fra Cristoforo Lauro; nel Fillidoro di Pietro Matteuccio (Venezia, M.DC.XIII); ne' Tormenti d'Amore, Tragicommedia pastorale di Pietro Matteazzi (Venezia, M.DC.V). Questo Pietro Matteazzi è forse tutt'uno col soprammentovato Pietro Matteuccio: egli dice al suo lavoro
Esci, parto amoroso,
Da l'ombra del mio core,
Novo figlio di Febo, al sommo ardore;
Ed or, che l'Orïente
La notte indora in ciel chiaro e lucente,
Quivi t'innalza e intendi:
E poscia cadi, incenerisci o splendi.
Similmente ne' Miracoli d'Amore dello Iacobelli (Roma, M.DC.I). Lo elegantissimo Ieronimo Vida, nella sua Fillira tanto leggiadra, descrive, che non si può meglio, i sentimenti d'un uomo converso in fonte, quando l'amica sua va a specchiarvisi (Atto III. Scena IV. Parlata di Carino che principia:
Che non fec'io per meritar suo amore?)
[4] A proposito di uccelli che parlano. Ortensio Lando narra che:—«un corvo... vide la madonna far una torta et merendar con una sua comadre; et venuto il padrone, il semplice corvo incominciò a dir: Madonna ha fatto torta, madonna ha fatto torta. Il padrone chiede la donna dove sia la torta. La donna con viso turbato et piena di mal talento li risponde che non vi è torta alcuna, et che di lui si maraviglia, come più tosto voglia credere ad un animalaccio che a lei. Acquetasi il buon marito, et fatto ciò che aveva da fare, tornossi fuori. La donna iraconda (sì come sogliono esser quasi tutte) appena fu il marito scostatosi un tratto di pietra, ch'ella se n'andò alla gabbia et spelò il capo al loquace corvo. Non istette molto, che venne un frate a chieder del pane; et cavandosi il cappuccio et essendo nuovamente raso, credette il corbe li fosse stato pelato il capo per aver parlato di torta, et a lui rivolto molte fiate replicò: tu hai parlato di torta, tu hai parlato di torta; et pareva si rallegrasse che il buon frate fosse caduto nella medesima sciagura ch'egli cadde.»—Racconto popolare diversamente narrato dal Firenzuola nella Prima Veste dei Discorsi degli Animali. Altro caso di zoolalia narrato dal Lando è poi il seguente, anch'esso facezia popolare che tuttodì variamente si racconta:—«Eravi un prete, il quale avevasi per suo trastullo nodrito un fanello, addottogli dalla Marca dove sono i migliori che si ritrovino. Et stando un giorno tutto spaventato col becco fra le piume, sopraggiunse il prete et sì gli disse: che fai bestia? Alzò allora il capo il fanello, et disse quel versetto di David pieno di mistero: Cogito dies antiquos et annos aeternos in mente habeo.»—
VIII.