La novellaja fiorentina. Vittorio Imbriani
nel vostro appartamento mi farete il regalo di mettermi il vezzo che mi avete mandato.»—«Più che volentieri. Fido!»—Siccome questa bellissima femmina faceva tanto per farsi riconoscere al padre che l'era sua figlia, perchè l'aveva un segnale nel collo, prossimo alle reni, d'una voglia d'un bellissimo granchio; si leva i' velo che aveva a i' collo. Eccoti i' padre che Fido gli avea portato i' vassojo con i' vezzo; prossimo a lei ci era una bellissima sieda; che i' padre prende i' vezzo per mettergnene a i' collo, quando gli è di dietro per fermargnene con la fermezza e tutto, a un tratto fa:—«Ohimmè!»—e si sviene.—«Uh! che è seguìto? cosa c'è? cosa c'è?»—«Portate roba da far rinvenire Sua Maestà!»—Rinviene:—«Se non fussi diciott'anni che mia figlia è fori della mia reggia, che rimase incantata da un mago, direi che fosse mia figlia, direi.»—«Signor padre, m'inchino davanti a Lei.»—Si rizza e s'inginocchia davanti a lui.—«Sei mia figlia, proprio?»—«Sì, mio padre, che io sono Sua figlia proprio. Chesto è stato i' mio liberatore, che due suoi propri fratelli, i' mago che incantò me, gli squartò tutti e due,»—e gli racconta tutt'i' caso com'era seguito, lei. I' Re:—«Bravo Antonio! Bravo Antonio! Bravo Antonio! Dunque sarà, figlia mia, il tuo legittimo sposo.»—«Crederei a meno, signor padre.»—I' padre te l'abbraccia e te la bacia dalla contentezza.—«Ora è l'ora d'andare a pranzo,»—fa i' Re.—«Ci anderemo a pranzo, ma un momento!»—fa i' giovane.—«So molto bene che è vivente ancora i' mio poero padre. Voglio, qui assolutamente, carissimo socero, che sia a pranzo, ancora lui.»—«Dove si va a prenderlo?»—«In un momento lo farò venire in questo palazzo.»—Entra nella sala d'udienza la sposa, la sposa che doveva essere e i' Re vecchio, i' padre della ragazza. Lui prende la sua bacchettina che aveva sempre accanto a i' fianco e la batte. Battuta che l'ebbe, si sente dire: Cosa comanda?—«Comando che n'i' mio palazzo sia apportato a i' momento i' mio povero padre.»—Apparisce i' suo povero padre, con una barba che gli arrivava a i' ginocchio, vecchio decrepito da i' dispiacere di aver perso tutti e tre i suoi figlioli.—«Signori, Maestà!»—si mette inginocchioni—«cosa comandano? Sono mezzo fori di me.»—«Poero vecchio!»—fa Antonio,—«n'avevi tre de' figli, eh? Come si chiamavano?»—«Uno Gigi, uno Francesco e uno Antonio.»—«E dovresti, buon vecchio, riconoscere vostro figlio Antonio. Lo riconosceresti?»—«Altro s'io lo riconoscerei! Nell'essendo n'i' podere tra di loro fratelli, facevano i' chiasso, cascò all'indietro e si fece una fitta nella testa sopra un sasso[7].»—Antonio che si leva i' cappello, gira la testa. I' padre:—«Se non credessi che voi fussi un Re, direi che voi fusse mio figlio Antonio.»—«Sì, carissimo padre, che io sono vostro figlio Antonio.»—Che benchè avessi quella barbona lunga che gli passava i' ginocchio, fa un salto, abbraccia i' padre e lo bacia.—«Dimmi un po', Antonio, e i tuoi fratelli?»—«Eh, carissimo padre, abbiate da sapere che questo ignorante di ortolano era un mago. Sapete? me li fece vedere tutti e due squartati n'i' mezzo.»—«Ah poeri miei figli! poeri miei figli e poeri miei figli!»—«Badate, carissimo mio padre, non esistono più a i' mondo i miei fratelli, ma neppure esiste più i' mago. Tanto ho fatto, che l'ho fatto morire. Alò[8], guardie, servitori e tutti, prendete i' mio poero padre, mettetelo in un bagno e lavatelo da capo a piedi e levatigli tutta quella barbaccia che lui ha davanti. Rivestitelo da gran signore da capo a piedi. Mettetegli una bella croce da cavaliere e lo spadino a i' fianco. Ora è i' momento d'entrare a pranzo.»—Se ne vanno a mangiare e bere. I' giorno agli spassi, divertimenti e tutto. Tornati dallo spasseggio entrano n'i' suo real palazzo. Feste per un par di mesi. A tutti i poeri della sua città, diedono pane, vino e carne; e se ne stettero, e a me nulla mi dettero.[9]
NOTE
[1] Variante della fiaba precedente. La prova di antropofagia si ritrova specialmente nelle tre novelle siciliane citate: Lu Scavu, La manu pagana, Ohimè. Gli ostacoli che assicurano la fuga si ritroveranno in Le due Belle—Gioje della presente raccolta. Vedi.
[2] Specie d'imprecazione che il narratore manda al mago. Nota che mago qui deve valer quanto Orco. Già l'Orco in tutti i dialetti lombardi si chiama: El mago.
[3] Probabilmente dispotico.
[4] Equivale a quel che a Napoli si direbbe mettere il lucchetto. Ma veramente le toppe son di solito fatte in Toscana diversamente che in Napoli. Nel Napoletano d'ordinario la serratura ha due buchi, uno da ciascuna parte dell'uscio, e chi vuol chiudersi in camera, toglie la chiave dal buco esterno e la mette nello interno e dà poi la mandata. In Toscana invece le toppe per lo più hanno un buco solo dalla parte di fuori e chi vuol chiudersi in camera, con un piccolo ingegno ferma la stanghetta in guisa che dallo esterno non lo si può più mandare indietro neppure con la chiave. Questo ingegno appunto si chiama segreto.
[5] Più meglio, più peggio, son generalmente usati in tutti i dialetti italiani, e non ne manca esempli negli scrittori. G. B. Basile, Le avventurose disavventure, Att. I, sc. 1.
Che vita più peggior credo non sia
Del pescator, ch'ogni ora
Nel mobil flutto la sua vita arrischia.
[6] In Firenze, sul Ponte Vecchio, di qua e di là son tutte bottegucce d'orefici e giojellieri.
[7] Un contrassegno identico, che serve poi a distinguere il segnato dal suo Menecmo o Simillimo, si trova nella Cerva fatata, trattenimento primo della giornata nona del Pentamerone. Ed eran di moda simili trovati nelle commedie, quando le finivan presso che tutte con agnizioni. Dico il medesimo di quella voglia del granchio, per cui la principessa è riconosciuta dal padre.
[8] Alò, suvvia. Per fermo dal francese Allons.
[9] Non so resistere alla tentazione di appor qui una annotazioncella interpretativa, contra il mio proposito. In questa fiaba è contenuto un mito solare evidentemente. Il mago è l'inverno; Antonio è il sole; la Principessa è la terra che per opera del sole smette il lurido ammanto che ne copriva le bellezze. Tutti i particolari ritraggono di questo carattere, compresi i capelli d'oro d'Antonio e la voglia che allude a un segno del Zodiaco.
III.
LA VERDEA[1].
C'era una volta un legnajolo di corte, e aveva tre figliole. Queste eran ragazze. Dunque il Re gli comanda di andare a fare un lavoro fori via, ma di molto; per cinque o sei anni. Quest'omo non poteva dire:—«Non ci vado!»—A voler mangiare!... Ma gli rincresceva d'andarsene lontano, in un paese, per affare di quattro o sei anni di lavoro. Torna a casa dalle figliole tutto inconsolabile, afflitto; e gli dice:—«Ragazze, Sua Maestà m'ha ordinato questo lavoro. Bisogna ch'io vada via, ch'io vi abbandoni. Ma voglio una grazia da voi.»—«Qual'è, babbo,»—dice—«la grazia?».—Che voi vi contentiate ch'io vi muri l'uscio.»—Dice:—«Oh come questo è, noi siamo contentissime!»—E così quest'omo fa murare la porta. Gli mette tutto tutto tutto quello necessario; gli lascia quattrini; e gli dice:—«Prendete questo bel paniere grande, e la fune del pozzo. E quando passa questi