La Principessa Belgiojoso. Raffaello Barbiera

La Principessa Belgiojoso - Raffaello Barbiera


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e dei Culti, diceva al Lafayette: Dites aux Italiens d'agir: La France se levera tout'entière pour les secourir en cas de bésoin. Il presidente del Consiglio, Giacomo Lafitte, banchiere, la cui Casa aveva fornito denaro senza rimborso per l'insurrezione, dichiarò al Lafayette di essere nell'interesse della Francia il circondarsi di Stati liberi: la Francia non avrebbe permesso ad altre potenze di schiacciare i rivoluzionari.[20] La principessa Belgiojoso inviò, col mezzo del modenese Vincenzo Pisani (uno spaccone), sessanta mila franchi[21], parte in denaro, parte in cambiali; e trapunse ella stessa la coccarda per la spedizione[22]; alcuni francesi e signore inglesi elargirono altri soccorsi a Lione, donde la spedizione, guidata dal generale piemontese Regis, fra le acclamazioni del popolo stava per muovere verso la Savoja; quand'ecco il ministero Lafitte d'un tratto è rovesciato e Casimiro Perrier, nuovo presidente, ordina al prefetto di Lione d'impedire, anche con la forza, la partenza degli insorti per la Savoja: e tutto andò in fumo, come piacque al re Luigi Filippo che aveva segrete intese con l'imperatore d'Austria. Quello fu un periodo di aspre contrarietà per Cristina. Era disgustata del marito, e più di parecchi profughi. Aveva affidato dieci mila franchi a certo Pironti, perchè soccorresse gli esuli italiani di Marsiglia; ma il brav'uomo pensò ch'era meglio soccorrere soltanto sè stesso, e li intascò. Per le cambiali rilasciate, la principessa si trovò impigliata negli imbrogli. Il pagamento di quelle cambiali famose suscitò arrabbiate contestazioni con un piemontese, certo Fasanini, che le aveva girate, e che troveremo più tardi. Ma il peggio per la principessa fu il tradimento d'un Doria, che non apparteneva no, alla gloriosa famiglia di Genova, ma ne portava, o forse se n'era appropriato, il nome. Parliamo di costui; ma prima dobbiamo accennare che a Parigi dove Cristina si ritrasse nel 1831, domandò (fingendo umile pentimento) all'Apponyi, ambasciatore d'Austria a Parigi, la restituzione dei beni confiscati. Infatti, era stata costretta a vendere i suoi gioielli per 150,000 franchi. — E ora veniamo al traditore.

       Indice

      Un Argenti propone di uccidere il Metternich. — Il marchese Raimondo Doria e il Metternich. — Avventure del Doria. — Sue delazioni. — Il Doria e la Principessa. — Misteriose riunioni a Genova. — Una tragedia a Milano.

      Era il marchese Raimondo Doria di San Colombano (così almeno egli si firmava); e per lui, nessuna pietà! Nessuna per lui che, trascinando nel fango un gran nome ligure, volle farsi delatore de' proprii fratelli di fede per isfogare contro gli uni vendette, rancori; e contro gli altri.... Non potea lanciare per loro neanche la scusa d'un'offesa o d'una provocazione; eppure fe' loro, con perfido gusto, tanto male....

      Simile a una vipera, il nome del Doria s'intreccia con quello della Belgiojoso, e con quanti altri nomi di cospiratori e di martiri!

      Era il 28 giugno del 1831. Un piccolo uomo, che avea l'aria sorridente d'un frequentatore di quinte e galante corteggiatore di ballerine, il nobile cavaliere Carlo Giusto de Torresani Lanzfeld, imperial regio consigliere aulico, direttore generale di polizia a Milano, inviava al presidente del tribunale di Milano una nota di gran rilievo contro due cospiratori lombardi: Giovanni Albinola e Felice Argenti.

      L'Argenti (la cui vita avventurosa conosceremo nel seguente capitolo) avea tentato uno sbarco rivoluzionario sulle coste della Toscana; e dal Governo di Firenze era stato arrestato a Pietrasanta e consegnato alle autorità di Milano, felicissime d'aver alfine nelle mani un lombardo ribelle di prima linea, dopo tanti che eran loro sfuggiti. L'Argenti venne rinchiuso nelle carceri di Porta Nuova, dove venne pur custodito Giovanni Albinola: entrambi erano giovani, entrambi eran nativi di Viggiù presso Varese.

      Il Torresani diceva, in quella nota, d'aver fatto rapporto sui due arrestati al conte Sedlnitzky, presidente del Supremo dicastero aulico di polizia e di censura a Vienna; il quale s'affrettò a comunicare il rapporto al cancelliere di Stato e di Corte, principe di Metternich.

      E il Metternich affidò allora al conte Sedlnitzky una lettera segreta pervenutagli da Livorno nel dicembre dell'anno innanzi, firmata: Marchese di San Colombano. Questa lettera, stesa in scorretto italiano, con rozza scrittura, da quel marchese, racconta che, in una “Vendita di carbonari„ tenuta segretamente (come il consueto) nella metà d'agosto di quell'anno stesso a Genova, l'Argenti si era proposto di trucidare il principe di Metternich. La lettera soggiunge che la proposta non era stata accettata dall'assemblea dei cospiratori perchè egli, marchese di San Colombano, vi si era opposto.

      La lettera comincia così:

      “Felice Argenti, console generale del Brasile in Livorno, si offrì di troncare i giorni dell'Altezza Vostra, se ciò gli veniva permesso. I carbonari sono armati d'un fucile, d'uno stilo e di due mazzi di cartuccie, e devono avere con sè 16 franchi. I carbonari devono essere pronti ad agire al primo segnale dei loro superiori, agli ordini dei quali sono responsabili colla propria vita.„[23]

      Questo marchese di San Colombano o Raimondo Doria, nella Carboneria aveva voluto assumere il nome simbolico di Morte; ed era stato promosso fino al sesto grado di dignitario nella Carboneria e di “gran maestro„ per tutta la Spagna.

      Egli, infatti, conosceva la Spagna per avervi dimorato. Sua madre era una spagnuola. Anna Saavedre: suo padre (egli faceva credere) era uno Stefano Doria di Genova; sua moglie, dalla quale era separato, viveva colla nobile famiglia paterna a Caselle, presso Torino. Contava trentott'anni. Disgustato dei Carbonari, ne fu il Giuda.

      Benchè nato a Malaga, il Doria abitava a Genova, o dove piaceva meglio al Governo Piemontese, al cui servizio militava come capitano di cavalleria. Una volta, subì un processo a Madrid “per calunniosi sospetti d'alto tradimento fondati sulle mie relazioni col ministro della guerra Cruz (diceva egli) e l'esito della mia procedura si fu ch'egli perdette il portafogli di quel ministero, ed io venni esiliato dalla Spagna.„

      Ma anche a Genova i tribunali gli erano saltati addosso. Il marchese avea rapita una donna; era perciò stato condannato a due anni di carcere, pena che per grazia reale gli fu mutata in due mesi d'esilio dagli Stati Sardi.

      Al Torresani fu trasmessa la lettera dal Doria scritta al Metternich; ed egli, allora, deve avere esclamato: “Ecco, questo è il nostro uomo!„ Fatto sta che, col mezzo d'un atto dell'imperatore d'Austria, lo fece venire a Milano.

      “La mia venuta qui in Milano (raccontava il Doria in un interrogatorio davanti al tribunale di Milano) fu motivata dalla comunicazione d'una risoluzione sovrana di Sua Maestà l'imperatore d'Austria. Sono stato scortato da due carabinieri sino al confine austro-sardo; e di là giunsi liberamente a Milano coll'intenzione di far conoscere ch'io sono un uomo d'onore e di cooperare per quanto sta in me a svelare le perfide trame che minacciano tutt'i Governi legittimi.„ Con decreto dell'imperatore, il Doria “veniva assicurato dell'impunità„. Nello stesso tempo, era esentato dal confronto colle persone che avrebbe denunciato al tribunale.

      Da allora, in tutti gli atti numerosissimi della polizia e dei tribunali, il Doria apparisce coll'inseparabile predicato d'impune: l'impune Doria: il suo stigma.

      Arrivando a Milano, quel tristo si cambia nome. Non è Doria che pei tribunali e per la polizia: per tutti gli altri, è Stefano De Gregorio. Va ad abitare in una casa, senza portinajo, sulla Corsia del Giardino, oggi via Alessandro Manzoni, in un piccolo appartamento dove penetra solo una servente trentenne, certa Maria De Bernardi, che verrà poi pugnalata. Il Doria le affida un bambino avuto da un'amante. Il povero figliuolo è malaticcio; eppure quel padre crudele lo fa dormire sulle sedie.

      Quasi ogni mattina, alle nove, il Doria esce solo, sempre solo, e si reca nella vicina Casa di correzione a Porta Nuova; e là, dinanzi al consigliere d'appello, Paride Zajotti, letterato e inquisitore astutissimo di tanti nobili patrioti, e alla presenza degli assessori Pecchio, Càrcano e dell'attuaro Grabmayer, depone atroci denunce, che vengono diligentemente raccolte dall'attuaro in diffusi processi verbali; e durano dalle dieci della mattina alle quattro pomeridiane quelle sedute, quelle infami denuncie! Con lo scopo di evitare pericolose pubblicità, la polizia ha scelto appunto quel luogo: là, infatti, il consesso giudiziario è solito di trasferirsi per interrogare i detenuti di quelle carceri; così non può


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