Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8. Giannone Pietro
il funesto spettacolo di maggior misericordia e commiserazione, fu la tenera età e la intrepidezza di Bohorquia, la quale appena toccati i 21 anni, sofferse morte sì crudele con somma costanza. Le Case d'Isabella Venia, come quelle, nelle quali i Settarj ridotti a truppe aveano fatte le loro preci, furono da' fondamenti buttate a terra.
Dopo costoro furono bruciati Ferdinando di Fano, Giovanni Giuliano Ferdinando, detto volgarmente dalla picciolezza del suo corpo il Piccolo e Giovanni di Lione, il quale avendo ne' suoi primi anni nella nuova Spagna al Messico, esercitata l'arte di Sartore, da poi ritornato alla Patria, erasi fatto del Collegio di S. Isidoro, ove era occultamente professata la nuova religione. Accrebbe il lor numero Francesca Chaves Vergine a Dio sacrata nel Convento di S. Elisabetta, la quale da Giovanni Egidio Predicatore di Siviglia era stata istrutta, e Cristoforo Losado Medico. Del Collegio istesso di S. Isidoro furon arsi Cristofaro Arellanio e finalmente Garzia Arias, il quale, per essere stato il primo ad introdurre in quel Collegio i semi di questa nuova dottrina, fugli per ciò apparecchiato un rogo più grande e quivi vivo bruciato. Fu posto ancora fuoco al Collegio, onde tutto arse, e con esso buona parte della Città.
Rimaneano, per finir la tragedia, Egidio Predicatore di Siviglia e Costantino Ponzio: Egidio presso l'Imperador Carlo V per la sua pietà ed erudizione era entrato in tanta sua grazia, che Carlo l'avea disegnato Vescovo, ma poi accusato all'Inquisizione, sia per sua astuzia, sia per le persuasioni di Domenico Soto, avendo pubblicamente abjurato l'errore, fu liberato, e solamente a tempo gli aveano gl'Inquisitori interdetto l'ufficio di predicare, e delle altre cose sagre, e poco prima di questa tragedia si trovava già morto. Ma ora gl'Inquisitori, reputando avere allora con Egidio con troppa mitezza proceduto, ritrattarono la sua causa, chiamando in giudicio il suo cadavere, ed ancorchè morto, lo condannarono a morte. Non potendo bruciarlo vivo, fanno una sua effigie, e la buttano ad ardere nelle fiamme in quello spaventoso teatro. L'altro, Costantino Ponzio: fu egli Confessore di Carlo V nella sua solitudine, lo servì in quel ministero sino alla fine, e raccolse, nelle sue braccia l'Imperadore spirante; ma morto Cesare, imputato d'eresia, fu posto immediatamente in prigione, nella quale morì poco tempo prima di questa funebre pompa. Fu dagl'Inquisitori trattata la sua causa, e condennato, ancorchè morto, ad ardere nelle fiamme; gli fu tosto fatta la statua rappresentante la sua effigie in atto di predicare, spettacolo, che agli astanti mosse in alcuni in prima le lagrime, in altri il riso, ma in fine a tutti indignazione, vedendo, che se contra una statua inanimata si procedeva con questi modi, ben si conosceva non esser da sperare nè connivenza, nè misericordia da chi non riputava degno di rispetto colui, che infamato disonorava maggiormente la memoria dell'Imperadore suo padre.
Passò poi Filippo in ottobre a Vagliadolid, dove usando la stessa severità, fece in sua presenza, con simili lugubri apparati, bruciare ventotto della principal Nobiltà del paese, e ritener prigione Fr. Bartolommeo Caranza cotanto celebre nella prima reduzione del Concilio a Trento, fatto poi Arcivescovo di Toledo, principal prelato di Spagna, al quale furono eziandio tolte tutte l'entrate54.
Queste crudeli ed orribili esecuzioni pervenute all'orecchie de' Napoletani, può ognuno immaginare di quanto orrore e spavento fossero cagione. Ma pochi anni appresso due occorrenze apportarono ad essi maggiori timori, e gli riempirono di continue agitazioni e tormentosi sospetti.
Nel Ducato di Milano, dalla Francia per la strada di Savoja, era di qua de' Monti passata la nuova dottrina, e cominciava già a serpeggiare la contagione delle nuove opinioni di Religione. Il Duca di Savoja, non venendogli permesso, per le congiunture de' tempi, di potere far altro, tollerava ne' suoi Stati alcuni occulti Protestanti55; ma gli Spagnuoli, vedendo questo veleno insinuarsi nel Milanese, riputarono, per estirpare il male nello spuntare, di dover usare della loro severità. Il Re Filippo II istantemente chiedeva al Pontefice Pio IV, che in Milano s'ergesse per sua autorità il Tribunal dell'Inquisizione, siccome era in Ispagna. Ma il Papa, avendo portato l'affare in consulta nel Concistoro, molti Cardinali glie lo dissuasero; ed egli, per non esser molesto a cittadini di Milano, donde traeva l'origine, con dispiacere veniva a farlo, con tutto ciò, costretto dalle forti premure del Re, glie lo concedette, e ne gli spedì in quest'anno 1563 diploma. Quando i Milanesi furono di ciò avvisati, non avendo essi meno che i Napoletani quel Tribunale in orrore, s'esasperarono in maniera, che se non fosse stata presta la somma prudenza del Duca di Sessa lor Governadore ad occorrervi sarebber accadute in Milano le medesime rivoluzioni e tumulti, che avvennero in Napoli nel governo di D. Pietro di Toledo. Ferdinando Consalvo di Cordova Duca di Sessa, che allora era succeduto al Marchese di Pescara, per non vedere nel principio del suo governo questi moti, stimò mandar tosto più Cittadini al Re ed al Pontefice, per distoglierli dall'impresa: ed egli con suoi ufficj insinuò al Re, che istituire in Milano il Tribunale dell'Inquisizione, come in Ispagna, era lo stesso, che turbar tutto lo Stato, e porlo in iscompiglio e disordine. Il Re si quietò, e molto più il Pontefice, onde non si parlò più d'Inquisizione.
Questi medesimi timori sopraggiunsero poco da poi in Napoli, per un'occasione, che da più alto saremo ora a narrare. Quando sotto l'Imperio di Federico II per via d'eserciti armati, e non altrimenti di quello, che si faceva contra Saraceni, con crociate, si proccurava estirpar gli eretici di que' tempi, e particolarmente i Valdesi, ovvero Albigesi; questi rotti e fugati, e spogliati delle dignità e beni, si dissiparono in molte parti, e nella loro credenza ostinati, non potendo colle armi più difendersi, proccurarono di ricovrarsi in luoghi oscuri, dove da niuno osservati, così negletti mantennero la loro credenza. Alcuni si ricovrarono nella Provenza, in quel tratto de' Monti, che congiungono le Alpi con i Pirenei, dove lungamente se ne conservarono le reliquie sino al Pontificato di Giulio II, e più ancora. Altri si ricovrarono nella Germania, ed in alcuni Cantoni di Boemia, di Polonia e di Livonia fecero residenza, li quali da' Boemi erano chiamati Piccardi. Ed alcuni altri, secondo che narrano gravissimi Scrittori, fra' quali è il Presidente Tuano56, si ricovrarono (chi il crederebbe)? presso di Noi in Calabria, ed in questa Provincia lungamente vissero, sino al Pontificato di Pio IV e 'l Regno di Filippo II, nel qual tempo governando il Regno il Duca d'Alcalà furono intieramente sterminati ed estinti57.
Viveano costoro nella Provincia di Calabria citeriore in alcune Terre presso Cosenza, nominate la Guardia, Baccarizzo e S. Sisto, da loro medesimi fondate; anzi la Guardia fu detta perciò de' Lombardi, perchè essi che vennero ad abitarla, da oltre i monti e dalle parti di Lombardia ci vennero58. Quivi, come in luoghi oscuri e negletti, vissero lungamente non osservati, nè curati. Fu prima in loro tanta semplicità ed ignoranza di buone lettere, che non vi era alcun timore, che potessero comunicar la loro dottrina ad altri: non era in alcuna considerazione il lor picciol numero; e mancando di qualunque erudizione, nè si curavano disseminar la loro dottrina, nè che altri fossero curiosi d'intenderla. Ma surta da poi in Germania l'eresia di Lutero, e quella, come si è veduto, arrivata sino a' Cantoni de' Svizzeri, e penetrata nei Piemontesi ed in alcuni Lombardi abitanti lungo il Pò, dond'essi traevano l'origine, e co' quali aveano continua corrispondenza, furono i primi appo noi, ch'ebbero le prime notizie della pretesa Riforma, e per esserne più distintamente informati, mandarono in Genevra, invitando alcuni di costoro a venire nelle loro Terre ad istruirli meglio di quella dottrina. Vennero con effetto da Genevra due Ministri seguaci di Lutero, i quali pubblicamente predicando la pretesa Riforma, ed insegnandola con particolari istruzioni e catechismi, non solo la disseminarono in quelle Terre della Calabria, ma la insinuarono nelle circostanti; e da quella Provincia già cominciava ad esserne attaccata l'altra vicina: poichè Faito, la Castelluccia e le Celle, Terre della Basilicata, eran già state contaminate. Chi prima si fosse accorto di questa infezione, narra il P. Fiore Capuccino59, che fu un Prete nomato Gio. Antonio Anania da Taverna, fratello di Gio. Lorenzo famoso per l'opera data alle stampe De Natura Daemonum60. Costui si trovava in quel tempo nella Casa del Marchese di Fuscaldo Spinelli, di cui era la Guardia, in qualità di Cappellano: onde per la vicinanza, e forse anche per la pratica, che teneva con quelle genti, s'accorse, che il male, se non si dava pronto rimedio, era per spandersi assai più; onde nel 1561 ne scrisse in Roma al Cardinal Alessandrino Inquisitor Generale,
54
Thuan. l. 23 Histor. Soave loc. cit. p 426.
55
Thuan. lib. 36 Histor. ann. 1563.
56
Thuan. in Epist. dedic. suae Histor. ad Henr. IV.
57
Thuan. loc. cit. Pars il Calabriam concessit, in eaque diu, atque adeo usque ad Pii IV Pontificatum continuit.
58
Summ. tom. 4 lib. 10 cap. 4.
59
P. Fiore Calabr. iliust. lib. 1 par. 1 cap. 5 num. 6.
60
V. Nicod. ad Biblioth. Top. pag. 124.