Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8. Giannone Pietro
rottura confermò l'Unione e mandò Ambasciadori al Vicerè, richiedendo, che desse a tutti alloggiamento, perchè per servigio di Sua Maestà tutti, non solo i Baroni e Titolati, volevano venire, ed alloggiare in que' Quartieri; al che il Vicerè ridendo, rispose, che l'ambasciata, ancorchè in tempo d'està, era riuscita troppo fredda.
Per questa cagione, e per non potersi vivere sotto quel corrotto governo, ogni uomo da bene se ne usciva dalla Città con la lor famiglia, e niuno vi sarebbe rimaso, se i Deputati non avessero poste le guardie alle Porte; ed era cosa compassionevole a vedere la Città vota de' suoi Baroni e d'onesti Cittadini, e piena all'incontro di plebe arrogante e d'infiniti fuorusciti, i quali scorrendo, ora in questo, ora in quell'altro luogo, facevano mille insolenze, e chi gli riprendeva era ingiuriato e chiamato traditor della patria, e lo forzavano e pigliar l'armi, ed andar con essi loro; ma chi egregiamente si mostrava in piazza in giubbone, o armato, e si offeriva di morir per la patria, minacciando il Gigante del Castel Nuovo (così chiamavano D. Pietro di Toledo) quello onoravano, e chiamavano patrizio, e degno d'esser Deputato della città; ed allora già il governo de' Deputati si cominciava a dissolvere, e ne nasceva il governo di pochi e potenti, e quasi un Triumvirato di Cesare Mormile, del Prior di Bari e di Giovanni di Sessa, restando i Deputati di solo nome per riputazione della Città.
Stando le cose in questo stato, vennero al Vicerè Ambasciadori del Duca di Fiorenza suo genero, della Repubblica Senese, e dell'altre Potenze d'Italia, con offerirgli soccorso di gente e di denari; a' quali il Vicerè mandò a ringraziare, accettando solamente l'offerta del Duca di Fiorenza, al quale fece sentire, che gli tenesse in ordine cinquemila pedoni, e che bisognando, per mare si conducessero in Napoli. Sparsasi di ciò la fama per la città, i Deputati dubitando non essere all'improvviso assaltati, determinarono anch'essi di assoldare diecimila soldati, i quali fur subitamente raccolti per la moltitudine de' villani e de' fuorusciti, che erano entrati nella città. Fecero anche rassegna di tutto il popolo, e fur trovati quattordicimila uomini atti all'armi la maggior parte archibugieri. Questo così fatto esercito era senza Capo; imperocchè i Deputati non lo vollero mai fidare ad alcun Capitan Generale, per dubbio che non s'impadronisse della Città, e facesse qualche rivoluzione, ma lor medesimi lo governavano nel miglior modo che potevano, e se ne servivano solamente per difendere lor frontiere, in caso, che fossero assaltati; ma essi essendo senza timore di superiori, si mandavano per assaltar gli Spagnuoli ne' lor Quartieri, ed a' 21 luglio si attaccò tra loro una crudelissima zuffa, e la città toccò la Campana ad arme: e tutta la plebe corse alla volta degli Spagnuoli con grand'impeto insino alla Rua Catalana, dove uccisero molti Spagnuoli, e particolarmente n'uccisero sedici, che stavano i miseri mangiando nell'Osteria del Cerriglio. Il Vicerè quando questo intese, fece dare anch'egli all'arme, e posta la fanteria Spagnuola in squadrone la mandò guidata dal Balì Urries a ributtargli in dietro, il che fu fatto con gran prestezza; imperocchè a forza d'archibugiate gli fecero ritirare da tutto il Quartiere di S. Giuseppe, e della Rua Catalana insino al Capo della piazza dell'Olmo; e perchè dalle case furono feriti molti Spagnuoli per li fianchi, entrarono per forza dentro, rompendo le porte e mura, e finalmente presele, le posero tutte a sacco, ed a fuoco; e venuta la notte furono posti molti soldati Spagnuoli nella Dogana, ed in altre case forti. Presero anche il Convento di S. Maria la Nuova per forza, perchè vi erano molti soldati italiani, e vi fu posto dentro in guardia il Capitan Orivoela con una compagnia La città all'incontro fortificò S. Chiara, il Palazzo del Principe di Salerno, del Duca di Gravina, e Monte Oliveto e quel del Segretario Martirano, ponendo dentro molti archibugieri, ed alcuni pezzi d'artiglieria minuta. Fatto questo, il Vicerè comandò che gli Spagnuoli non uscissero fuora delli loro Forti, e che attendessero solamente alla lor difensione; ma il popolo, essendo senza Capo, e senza timore, non si fermava mai ne di dì, ne di notte, dando sempre all'armi, ed assalti agli Spagnuoli, ed a guerra bandita gli danneggiavano, ed ammazzavano crudelmente insieme con gl'Italiani aderenti del Vicerè, saccheggiando le lor case e vigne, e tal volta scorrevano insino a Pozzuoli a danneggiare le cose del Vicerè, ed insino a Chiaja ad assaltare i Cavalieri, che per ordine del Vicerè stavano ivi alloggiati. Durò questa crudel guerra quindici giorni, ne' quali dì e notte continuamente si combatteva, le artiglierie delle Castella e delle Galee, non perdendo tempo, tiravano nella Città, dovunque si vedeva gente armata; e già il popolo incominciava a gridare, che l'artiglieria della Città si ponesse in ordine per combattere Castel Nuovo, e gli altri Forti; ma li Deputati non lo vollero in modo alcuno consentire, parendo loro che questo sarebbe stata ribellione aperta. Questa guerra si dovrebbe chiamar civile, e per ciò si avrebbe dovuto tacere il numero delli morti in essa; poichè Giulio Cesare non volle scrivere il numero degli uccisi da lui nelle guerre civili; ma non mancarono Scrittori, i quali, senza aver questo ritegno, ne hanno de' loro nomi empite le carte.
Ma ecco, stando la guerra nel suo fervore, che ritornarono da Cesare il Marchese della Valle e Placido di Sangro. Incontanente fu fatta tregua per intender la volontà dell'Imperadore, la qual Placido spiegò alla città nel pubblico Consiglio, dicendo che Sua Maestà ordinava e comandava alla città, che dovesse deporre l'armi in potere del proprio Vicerè, il quale l'avrebbe appresso manifestato compitamente qual fosse sua volontà circa questo fatto. Questa risposta, benchè parve alla città molto dura, dovendo depor l'armi, senz'altro intendere, in poter del proprio nemico armato, tuttavia volendo mostrare, che le cose passate non erano state con mala intenzione d'inobbedienza verso sua Maestà, volle senza replica ubbidire; e volontariamente tutti andarono senza tardar punto a consegnar l'armi a' Deputati in S. Lorenzo, li quali poi in nome del pubblico le rassegnarono al Vicerè in Castello; e quantunque ne mancassero molte, il Vicerè, appagatosi di questa ubbidienza, non volle procedere rigorosamente in farle rassegnar tutte, ma ben volle gli fosse rassegnata tutta l'artiglieria grossa della città; e del resto desideroso di veder quietate le cose, dissimulò, come savio, molte altre cose, in che avrebbe potuto mostrar rigore. Fatto questo, subito il Vicerè con grandissima diligenza attese a riformar la giustizia, ed il governo della città; s'aprirono i Tribunali, ed ognuno attese a' suoi negozj, come prima, facendo assicurare, ed acquietare gli animi de' cittadini, scusando ognuno, e dicendogli, ch'egli conosceva, che furono ingannati da alcuni, che per le proprie passioni, e perversi disegni proccuravano di sollevarli sotto scusa dell'Inquisizione a far qualche rivoluzione, e che si rallegrava, che Iddio l'aveva liberati dalle loro mani: e per questo l'Imperadore perdonava a tutti, e ch'egli similmente faceva, ed era per fare qualsivoglia cosa per lor quiete e ristoro.
Ma la città, che tuttavia stava sospesa e desiderosa d'intendere qual fosse l'intera volontà dell'Imperadore, pregava il Vicerè, che la palesasse, poich'era pronta ad eseguirla. Perlochè a' 12 agosto fece chiamare in Castello i Deputati della Città, ed entrati che furono, fu alzato il Ponte, il che diede a que' di fuora non picciol terrore; ma il Vicerè raccoltigli benignamente, palesò loro la volontà dell'Imperadore, ch'era, che si contentava, che non fosse posta Inquisizione45; che perdonava alla città l'aver posta mano all'armi, poichè conosceva non esser venuto per ribellione: e che se Cesare Mormile, il Prior di Bari e Giovanni di Sessa fossero andati a S. M. in nome della città avrebbero avuto da lui compimento di giustizia. Li Deputati oltremodo allegri di questo, si partirono per andare a notificarlo alla città con sommo contento; ma poco da poi furono pubblicati trentasei eccettuati dalla grazia fatta dall'Imperadore, i quali essendo stati sentenziati a morte, avendo avuta tal notizia il Prior di Bari, Cesare Mormile e gli altri, fuggirono tutti via: solamente fu preso Placido di Sangro, e fu portato prigione in Castello; ma dopo certo tempo ne fur aggraziati molti, eccetto il Mormile, e tutti coloro, che andarono a servire al Re di Francia, a' quali furono confiscati i beni, e venduti: ed eccetto anche l'infelice Giovan Vincenzo Brancaccio, uno degli eccettuati, il quale per sua disgrazia fu preso, e decapitato.
Dopo questo venne lettera dell'Imperadore alla città dichiarandola Fedelissima, perdonandole gli eccessi dei precedenti rumori; ma per gl'interessi corsi per quel conto, la condannò in centomila scudi per emenda. Dichiarò anche, che tutto quello, che il Vicerè avea detto e fatto, era stato di sua volontà, e che per l'avvenire fosse tenuto e riverito come la sua Persona.
Stava la città quasi ristorata e quieta; ma con tutto ciò teneva maneggio col Principe di Salerno, che rimase per suo ordine nella Corte dell'Imperadore, non troppo ben mirato, nè in molto credito: anzi rimproverato d'essere andato Ambasciadore della città, lasciandola con l'armi la mano, ed anche perchè si diceva, che non era legittimo Ambasciadore, per non essere stato
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Ubert. Foliet. De Tumult. Neap. fol. 34 Thuano lib. 2 Hist. fol. 195. Bentivogl. Istoria di Fiandra par. I lib. 3 in Orat. Duc. Feriae ad Philip. H. Paramo. De Orig. S. Inquis. lib. 2 cap. 10 tit. 2. Card. Pallavic. Hist. Conc. Trid. lib. 10 c. 1 nu. 4.