Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8. Giannone Pietro
vecchi sospetti d'intelligenza col Vicerè e si creassero i nuovi. Il Terracina, con mostrarsene renitente, accrebbe il sospetto; onde entrati in fretta dentro S. Agostino, congregata la Piazza, ed ivi esposto l'arduità dell'affare, ed il pericolo grande e la poca corrispondenza de' fatti alle buone parole del Vicerè, parve a tutti espediente di privare il Terracina del suo ufficio d'Eletto, ed i suoi compagni dell'ufficio di Consultori (perchè in quel tempo il Popolo li creava) e rifecero in suo luogo per Eletto Giovanni Pascale da Sessa uomo audace e di fazione popolare, e per Consultori altri poco amici del Terracina e zelantissimi delle cose pubbliche.
Da queste forti resoluzioni del Popolo si mossero anche i Nobili, i quali avidamente ricevettero sì opportuna occasione per vendicarsi del Toledo, da loro in secreto odiato, i quali, non meno che i popolari abbominando l'Inquisizione, s'unirono con quelli, dando loro titolo di fratelli, avvertendoli sempre, che stessero vigilanti, atteso senza dubbio il Vicerè voleva l'Inquisizione, nè punto si fidassero delle sue parole, al quale, per togliere ogni ambiguità, bisognava resister apertamente, con dirgli, ch'essi non volevano Inquisizione nè all'usanza di Spagna, nè di Roma, e che insino alla morte, salva la riverenza al loro Principe, l'avrebbero contrastata. Il Terracina, e' suoi compagni rimasero in grandissimo odio col Popolo, ed il volgo, insino a' fanciulli, li chiamavano per le strade Traditori della Patria. Odiavano ancora, come dipendenti del Vicerè, il Marchese di Vico vecchio, il Conte di S. Valentino vecchio, Scipione di Somma, Federigo Caraffa padre di Ferrante, Paolo Poderico, Cesare di Gennaro e molti altri d'ogni Seggio.
Il Vicerè, udita la sollevazione del Popolo, il tumulto seguito, e come senza sua licenza erano stati imperiosamente privati de' loro ufficj il Terracina e gli altri, e che il Popolo alle sue parole e promesse, non dava alcuna credenza, fieramente sdegnato, minacciando, che avrebbe severamente castigati gli Autori di questi tumulti, se ne venne in Napoli; ed ancorchè da' Deputati si proccurasse raddolcire tanto sdegno, egli diede rigorosi ordini al Tribunal della Vicaria, che procedesse contra gli Autori, non men del tumulto, che della nuova elezione dell'Eletto, e Consultori: fra gli altri, che furono da quel Tribunale portati per Autori più principali, fu un tal Tommaso Anello Sorrentino della Piazza del Mercato, uno dei primi Compagnoni di Napoli, e di gran sequela, il quale, così nell'elezione, come nella sollevazione, si era sopra gli altri distinto, ed era stato colui, che avea tolto il nuovo Editto dalla porta della Cattedrale e laceratolo. Costui, essendo stato citato dal Fisco, dopo molta discussione, se dovea presentarsi o no, alla fine vi andò accompagnato da infinita moltitudine, che postasi attorno al palazzo della Vicaria, ondeggiando aspettava, che il suo Cittadino licenziato se ne tornasse. Il Reggente della Vicaria Girolamo Fonseca, quando vide tanta moltitudine, giudicò meglio per allora licenziarlo dopo breve esame, che di ritenerlo: il quale tolto in groppa del suo cavallo da Ferrante Caraffa Marchese di S. Lucido, al Popolo assai caro, a cui fu dal Reggente consegnato, bisognò portarlo per molte piazze di Napoli per acquetare i tumulti nati tra' Popolari, che temevano della vita di quel loro cittadino. Il Vicerè, dopo questo, vedendo riuscir vani i suoi disegni, pien di cruccio se ne tornò a Pozzuoli; e poco da poi fu, per l'istessa cagione del tumulto, citato Cesare Mormile Nobile di Portanova, ed al Popolo assai caro, il quale vi andò con molta riserva, e ben accompagnato; onde il Reggente riputò anche lasciarlo andare per l'istessa cagione, che avea lasciato andar l'altro. Questo fatto assai dispiacque al Vicerè; ma dissimulandolo, avea rivolto l'animo al castigo ed alla vendetta, aspettando sol il tempo di poterlo fare.
Ma nuovo accidente accrebbe vie più i tumulti e disordini. Aveva il Vicerè, fra questo mezzo, da' presidj di fuora fatte venire in Napoli alcune compagnie di soldati spagnuoli al numero di 3000, alloggiandogli dentro il Castel Nuovo: un giorno, qual si fosse la cagione, all'improvviso fur veduti questi soldati spagnuoli uscir fuori de' fossi del Castello; a questo avviso, il Popolo insospettito, corse a pigliar l'arme, si chiusero le botteghe e le case e tutti armati corsero verso il Castello. Gli Spagnuoli cominciarono a tirar dell'archibugiate, e corsi sino alla Rua Catalana, saccheggiavano le case, uccidevan uomini e donne e fanciulli. I Napoletani corsi al campanile di S. Lorenzo fecero sonare quella Campana alle armi: al suono di questa Campana, siccome ivi accorsero molti cittadini, così si svegliarono i Regj Castelli, cominciando a tirar cannonate contra la Città, ancorchè con pochissimo danno. Dentro la città e sovente nelle osterie, ove erano trovati Spagnuoli, erano uccisi e tagliati a pezzi. I Tribunali si chiusero; tutto era disordine e rivoluzione; sin che, sopraggiunta la notte, fu sopito alquanto il tumulto.
Il Vicerè fieramente sdegnato pretendeva, che la città col prender le armi avesse commessa chiara rebellione: all'incontro gli Eletti e' Deputati dolendosi di lui; dicevano, che per odio delle cose passate avea fatto introdurre tanti Spagnuoli in Napoli per saccheggiarla, e che come non fosse stata città dell'Imperadore, ma o de' Franzesi, o de' Turchi, come nemico la faceva cannonare da' Castelli, e che di tutto ne avrebbero avvisato Cesare; ed avendo fatto congregare i più famosi Avvocati e Dottori di que' tempi, fra' quali teneva il primo luogo Giovan-Angelo Pisanello, tutti seguitando il voto del Pisanello, conchiusero, che la Città non potea incolparsi di ribellione; e che per ciò potesse armarsi contra l'adirato Ministro, non per altro, che per conservare al suo Re la città e Regno. Fu per tanto risoluto di far soldati per la difesa della città, e fu dato questo carico a Giovan Francesco Caracciolo Priore di Bari Cavaliere di Capuana, ed a Pascale Caracciolo suo fratello, a Cesare Mormile nemico del Vicerè, ed a Giovanni di Sessa Eletto del Popolo; ma l'autorità del Priore e del Mormilo era quella, che governava il tutto.
Inasprì maggiormente gli animi un nuovo accidente; poichè stando nel Seggio di Portanova alcuni giovani nobili di quel Seggio, passarono alcuni Alguzini di Vicaria, che conducevano prigione uno per debiti; e perchè la città stava sollevata e tutta in arme, stimandosi poco li Ministri di giustizia, que' Nobili trattennero gli Alguzini, e gli dimandarono per qual cagione portavano colui prigione: quel ribaldo alzando la voce, disse; Signori, questi mi portano prigione per conto d'Inquisizione; per le quali parole que' giovani leggiermente si mossero a farlo fuggire dalle loro mani. Saputosi ciò dal Reggente della Vicaria, ne prese cinque di coloro, de' quali tre se ne trovarono colpevoli, e subito ne avvisò il Vicerè. Costui subitamente da Pozzuoli, ov'era, si portò in Napoli, ed a' 23 di questo mese di maggio comandò, che que' tre giovani fossero portati in Castel Nuovo, e chiamato il Consiglio Collaterale, ancorchè il famoso Cicco di Loffredo Presidente allora Reggente non vi consentisse; credendo che con usar sopra di loro estremo rigore s'avvilissero i Nobili, siccome il caso di Focillo avea fatto avvilire i Popoli, volle in tutte le maniere, che fossero condennati a morte ad uso di Campo; il che fu fatto, onde il dì seguente de' 24 ad ore 17 fur cacciati fuor del Castello e condotti a quel luogo ov'è solito piantare il talamo; e perchè il caso richiedeva prestezza, fur posti inginocchioni in terra, e scannati ad uso di campo.
Il Vicerè fatto questo, lusingato che con mostrar intrepidezza dovesse abbattere la superbia de' sediziosi, cavalcò subito per la Città accompagnato da molti Cavalieri spagnuoli e napoletani e con molti Soldati a piedi. Intanto i popolani, serrate le case e le botteghe, eransi posti tutti in arme e gridando, bestemmiando e minacciando andavan per la città a guisa di baccanti; per lo che i Deputati, quando intesero la risoluzione del Vicerè, mandarono a pregarlo, che per allora volesse differire di cavalcare, dubitando, che alcuno scellerato non avesse ardimento d'offenderlo, essendo il Popolo tutto in arme; con tutto ciò il Vicerè non volle lasciar di cavalcare, parendogli, che ciò sarebbe stata cagione di dar maggior animo a' sediziosi; onde i provvidi Deputati mandarono Cesare Mormile ed altri Cavalieri innanzi lungi dalla cavalcata, a raffrenare il Popolo, ch'era in grosse schiere armato per le strade, acciocchè non si movessero per niente contra il Vicerè. Ma fu cosa stupenda a vedere, che se bene non facessero movimento alcuno contra di lui, niente di meno a passar per le strade, non fu trovato uomo, nè picciolo nè grande che gli facesse con la berretta, o col ginocchio segno alcuno di riverenza, quando prima, sempre che cavalcava per la città, ogni uno correva a salutarlo con sviscerata affezione. Tanto l'orrore, che aveano all'Inquisizione, avea mutati gli animi loro.
Questa rigorosa giustizia e questa cavalcata del Vicerè imputata a disprezzo e poco conto, diede l'ultima spinta a maggiori sollevazioni e tumulti; poichè dubitando, che il Vicerè non volesse prender vendetta di tutti coloro, che gli aveano contraddetto al ponere l'Inquisizione, nella stessa maniera, che avea fatta con li riferiti tre meschini giovani, si posero nell'ultima disperazione; ed il Mormile, ed il Prior di Bari, per far credere al Popolo essere questo il disegno