Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8. Giannone Pietro

Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8 - Giannone Pietro


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a prender prigione Cesare Mormile e tutti gli altri, che l'aveano contraddetto al poner l'Inquisizione. A questa voce fu sonata subito la Campana di S. Lorenzo ad arme, ove concorsero infiniti colle armi alle mani, con prontezza di morir tutti per la libertà della loro patria: allora i Capi prendendo l'occasione, e vedendoli così invasati, fatto pubblico Consiglio, ottennero facilmente di far conchiudere in quello più cose. Primieramente fu determinato, che si togliesse al Vicerè ogni ubbidienza. II. che per tal effetto si facesse fra' Nobili e Popolari una Unione, con proposito di morir tutti, o niuno. E per III. che si spedissero Ambasciadori a Cesare.

      Fu fatta l'Unione, e per pubblico istromento firmata, e fu mandato un Trombetta ad intimarla a tutti que' Cavalieri napoletani, che s'erano racchiusi col Vicerè nel Castello, con protesta, che se non andavano a celebrar l'Unione con loro, metterebbero fuoco alle lor case e poderi; perlochè il Vicerè diede a tutti licenza, che v'andassero, per conservare i loro beni. Fu celebrata l'Unione, e preso un Crocifisso, andarono in processione per la città mescolatamente nobili e popolari, poveri e ricchi, titolati e non titolati, gridando; Unione, Unione in servigio di Dio, dell'Imperadore e della città; ed acciocchè ognuno entrasse in questa Unione, fu inventato, che chi non v'entrava, era chiamato Traditor della Patria; la qual fu di tanta forza, che tutti, grandi e piccioli, entrarono in quella, come in una venerabile Religione; perlochè il Vicerè ridendo soleva dire, che gli rincresceva molto di non aver potuto entrare in quella Santa Unione.

      Fu eletto per Ambasciadore della città a Cesare, Ferdinando Sanseverino Principe di Salerno nemico del Vicerè, il quale pieno di vanità e leggerezza, in cambio di scusarsene, accettò con giubilo la carica; a cui fu aggiunto Placido di Sangro, e portatosi subito dal Vicerè a licenziarsi, ancorchè questi gli assicurasse, che se egli andava per l'Inquisizione non era bisogno, perchè egli gli dava parola di far venire privilegio dell'Imperadore di non mai metterla; con tutto ciò rispondendogli, che non poteva lasciar d'andare per averlo promesso alla città, se ne andò subito a Salerno per ponere in ordine la sua partita. Il Vicerè stette tutto quel dì nella porta del Castello per informarsi di quello che passava nella città, ed avuto avviso, che gli era stata tolta l'ubbidienza, e che non lo chiamavano più Vicerè, ma D. Pietro, voltatosi a que' Cavalieri, ch'erano seco, ridendo disse. Signori, andiamo a starci in piaceri; or che non ho che fare, perchè non son più Vicerè Di Napoli.

      Pietro Soave42 nell'Istoria del Concilio di Trento (ancorchè ciò si taccia da tutti gli Scrittori napoletani) narra, che la Città mandò anche Ambasciadori al Pontefice Paolo III, al quale, aggiunge, che i Napoletani si offerirono di rendersi, quando avesse voluto riceverli; e che Paolo, a cui bastava nutrire la sedizione, come faceva con molta destrezza, non parendogli aver forze per sostener l'impresa, avesse rifiutato l'invito; non ostante che il Cardinal Teatino Arcivescovo di quella città, promettendogli aderenza di tutti i parenti suoi, ch'erano molti e potenti, insieme coll'opera sua, che a quell'effetto sarebbe andato in persona, efficacemente l'esortava a non lasciar passare una occasione tanto fruttuose per servizio della Chiesa, acquistandole un tanto Regno.

      Ma di questo fatto, che sarebbe stato di ribellione manifesta de' Napoletani, non vi è chi fra noi faccia memoria. Ed ancorchè il Duca d'Alba, e gli Spagnuoli lo tenessero per fermo; però il Pontefice Giulio III in una sua epistola rapportata dal Chioccarelli, diretta all'Imperador Carlo V, dove pregavalo a non far differire più la possessione dell'Arcivescovado di Napoli al Cardinal suddetto, lo niega costantemente, come diremo più diffusamente appresso. Ogni uno avrebbe creduto, che il Cardinal Pallavicino43 antagonista del Soave, dovesse ripigliarlo anche di questo; ma poichè quest'Autore, siccome è tutto al Soave contrario, ed opposto circa il ponderare i fini delle azioni, non già intorno alla verità de' fatti, ove sembra, che (toltone in alcune circostanze di poco rilievo) insieme concordino; così parimente il Pallavicino viene a confessare, che i Napoletani invitarono il Papa con larghe offerte a proteggerli;44 il quale però con pensiero egualmente pio e savio, non volle far movimento, conoscendo, com'e' pondera di suo capo, che l'acquisto di quel Regno temporale avrebbe messo a pericolo in tali tempi tutto il suo Regno spirituale; di cui il temporale è accessorio, e non durabile senza il sostegno dell'altro.

      Intanto il Vicerè dubitando, che quella Unione non partorisse qualche ribellione, massimamente vedendo, che gli Spagnuoli erano perseguitati ed uccisi, fece raddoppiare presidio nel Castel Nuovo. Il dì seguente, che fur li 26 di Maggio, i Capi del rumore sparsero fama per la Città, che il Vicerè disegnava di assaltare il Popolo e castigarlo, perchè avea a suon di campana dato all'arme, che parea spezie di rebellione; perlochè con prestezza fecero bastioni nella piazza dell'Olmo, ed in tutti i luoghi delle frontiere, misero gente a S. Maria della Nuova, e con gran inpeto corsero ad assaltar gli Spagnuoli dentro il quartiere. Il Vicerè, che di ciò ebbe avviso, comandò, che il Castelli giocassero con le artiglierie verso i luoghi, ove si vedeva raccolta gente armata, e mandò soldati spagnuoli alle frontiere a raffrenar l'impeto di quella gente. Si stette in continue scaramucce per tre giorni e tre notti, nelle quali molti dell'una parte e dell'altra furono feriti e morti.

      In questo stato di cose, i Deputati, avendo grandissimo riguardo di non incorrere in qualche atto di ribellione, stavano in continui consigli; e per dimostrare la debita fedeltà verso l'Imperadore drizzarono sopra il campanile di S. Lorenzo l'insegna con l'armi dell'Imperio, e vollero, che siccome gli Spagnuoli gridavano Imperio e Spagna, similmente il Popolo all'incontro gridasse Imperio e Spagna. Oltre di ciò mossero il Principe di Bisignano, ed altre persone amate dal Vicerè, che trattassero con lui di fare una tregua; e che si contentasse di non fare delle cose passate dimostrazione di castigo verso nessuno, insino a tanto, che non avesse sopra di ciò avvisato l'Imperadore. Del che il Vicerè si contentò, e fu risoluto che la città da sua parte mandasse uomo deputato a dar informazione del fatto a Cesare, e che il Vicerè mandasse un altro da sua parte; il quale vi mandò il Marchese della Valle Castellano del Castel Nuovo, con lettere dirette a Cesare, nelle quali lo ragguagliava fra l'altre cose, che l'Inquisizione non si comporterebbe affatto in questo Regno, come in Ispagna, per molte e molte cagioni; onde bisognava che non se ne parlasse, per cancellare questo nome di Unione, che al presente s'era cominciato. La città, come si è detto, vi mandò il Principe di Salerno con Placido di Sangro; e partirono questi per le poste a' 28 del medesimo mese di maggio; ma il Principe trattenutosi in Roma in visite ora di questo, ora di quell'altro Cardinale, fece sì, che il Marchese della Valle giungesse prima in Norimberga, ove Cesare in quel tempo dimorava.

      Nel tempo di questa tregua si stava dall'una parte e l'altra su l'avviso e si tenevano corpi di guardia con le loro sentinelle nelli lor Forti, praticando però i soldati col popolo, ed il popolo con loro, benchè il popolo armato e sollevato non stimava, nè ubbidiva gli Ufficiali della giustizia, anzi non si riteneva sovente d'ingiuriarli e maltrattarli. Ciò che veduto dalli Deputati, dubitando, che non ne nascesse qualche ribellione, andarono al Vicerè a' 15 giugno con Giudice e Notaro a richiederlo, che volesse tener cura della giustizia, come prima, poich'essi erano nella medesima ubbidienza di prima, dalla quale si protestavano non volersi mai levare e che offerivano ostaggi per sicurtà de' suoi Ufficiali. Ma il Vicerè, che vedeva, che tutto questo facevano per lor cautela, perchè in fatti non poteva Ufficiale alcuno comparire per la città per l'insolenze del popolo, che stava in schiere armato, non volle farlo, dicendo, che l'ubbidienza loro era in parole, e non in fatti; onde per pubblico decreto della città fu determinato, che si facesse un corpo di guardia, e che andasse per la città di giorno e di notte pigliando i delinquenti, ed imprigionargli nella Vicaria, acciocchè del Reggente e da' Giudici, che in quel Palazzo erano racchiusi, fossero puniti; e fu posta una Compagnia di soldati fuori del suddetto Palazzo, acciocchè niuno ardisse d'accostarvisi per rompere le carceri, ovvero per far violenza agli Ufficiali. Ma questa diligenza nulla giovava, imperocchè l'audacia della plebe era tanto sfrenata, che nè anco temevano gli Ufficiali della Città.

      In questo il Vicerè trovò una via per divider l'Unione, e per iscoprire se nella Città vi fosse qualche trattato di ribellione; e fu che scrisse un comandamento a tutti i Baroni, che dovessero per servigio di sua Maestà venire ad alloggiare nelli Quartieri degli Spagnuoli sotto pena di ribellione. Fu fatto sopra di ciò consiglio nella Città, e conchiuso, che vi andassero a lor piacere. Tutti vennero dal Vicerè, e furono alloggiati


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<p>42</p>

Soave lib. 3 ann. 1547.

<p>43</p>

Pallavic. lib. 10 cap. 1.

<p>44</p>

V. Gio. Battista Adriano, Hist. l. 6.