Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia. Carlo Bianco

Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia - Carlo Bianco


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quelli di codardo procedere accagionati, come neppure quei loro colleghi, che pur con onore combatterono, ma che non sappiamo se dobbiam dire per buona o per mala fortuna, loro non toccò la sorte di morire! Non son codardi no quei migliaia di forti rimasti a trascinare nella miseria, ed amarezze di ogni sorta quella vita che alla patria consagrarono, e che pel suo miglioramento ancor sarebbero ben contenti di sagrificare! Chiaro dunque appare che non mancano gl'Italiani d'animo, spirito e capacità guerriera, ma che solo trovasi questa, per la sozza schiavitù che gli opprime, come paralitica intirizzita. Se quanto abbiamo di sopra esposto per intieramenle convincere un qualche ostinato non bastasse, noi ci varremmo delle parole del ben noto cavaliere Follard, nella sua storia di Polibio, al tomo quinto, pagina 379, alle quali non potrebbesi, senza taccia di scimunito o di mentitore, dei falli obbjettare: dappertutto, dic'egli dove nascono uomini, nascono soldati, e se questi mancano, quando gli altri abbondano, il torto è del governo, perchè nulla è più facile che formare un'eccellente milizia, ed uffiziali per condurla, e ciò in minor tempo che si crede; se ne vuole forse un bel esempio? Citare Pelopida ed Epaminonda, che di un numero di Borghesi di Tebe, senza nessuna esperienza di guerra, ne fecero dei soldati intrepidi, sarebbe riandare cose troppo lontane; contentiamoci di citare Pietro il Grande, Czar di Moscovia, il più grand'uomo che sia comparso al mondo dopo gli antichi, che col mezzo di un'ammirabile disciplina, cambiò i suoi sudditi per lo addietro dispregevoli in intrepidi soldati: portano pure la stessa opinione, i più grandi politici conosciuti; Polibio e Tacito, non meno che un'infinità d'autori antichi e moderni, sono dello stesso parere; non v'ha dubbio dunque sulla capacità degl'Italiani alle armi, e solo sono, e meritano di essere in niun conto per la guerra dell'Europa tenuti, perchè non vollero fin ora, con uno scopo onorevole per la nazione impugnarle; ma presa una volta quella tanto sublime determinazione non molto lontana, e pervenuti a scuotersi, ed infiammarsi, vedransi (noi siam persuasi) gli antichi prodigi di valore dei mai sempre illustri avi nostri ben tosto con somma gloria ripetere.

      Altri, educati alla scuola di Buonaparte, o timidi di cuore, o pseudi-filosofi, più stranieri che italiani, non vogliono persuadersi, che la nazione abbia l'energia, e volontà necessaria per digiogarsi da se sola, senza che siale mestieri d'aver all'appoggio straniero, ricorso, la loro mente presenta sempre ai lor occhi l'Italia ai tempi dell'invasione di Carlo VIII di Francia, o di Buonaparte; essi altro non vedono che quegl'Italiani ora dall'uno, ora dall'altro disprezzati, e malmenati, che sopportando a capo chino e ginocchia piegate le ingiurie degli stranieri; la mano del carnefice che gl'immolava, umilissimamente baciavano! Non considerano questi che le circostanze d'allora, erano da quelle d'oggi ben differenti; che il modo di pensare, e di agire degl'Italiani è cambiato, che il loro genio si allontana per adesso dalle scienze e le belle arti per addirizzare le sue brame ad una più solida, e brillante gloria, cioè per quella degl'antenati riacquistare, che qualunque buon italiano respinge con isdegno l'idea di essere stromento, od agente dello straniero; ben compresero per esperienza gl'Italiani essersi giustamente apposta Madama di Staël, quando stabilì per massima che: la libertà non vuol essere data, ma vuol essere presa: l'Italia più che qualunque altro paese ha già provato quanto valga la libertà dagli stranieri accordata, che quando, sotto Napoleone, scesero i Francesi dalle Alpi, le dissero che venivano a trarla dalle sozze mani d'una razza di degenerati dominatori, che come tiranni, non erano della sua stima, nè del suo amore meritevoli; che agl'Italiani come liberatori si presentarono, e dichiararono loro socj, loro uguali, e come loro liberti da schiavitù redenti, cui per diritto il godimento della libertà, ed independenza giustamente spettava! Erano queste parole certamente bellissime, ma non furono che parole, e ben conoscono in oggi gl'Italiani altro che buone parole inutili non doversi dallo straniero aspettare; e per verità quali furono i fatti? Spogliarci, tenerci dipendenti, divisi, schiavi, col nostro sangue, e con le nostre sostanze farci ad ajutare, ed aumentare la loro gloria, contribuire, grande porzione della quale, fu senza dubbio opera nostra, per poi con biasimevole mancanza di generosità, nelle loro storie e relazioni di quell'epoca, finanche dei meritati encomj che ci sono per giustizia dovuti, del tutto defraudarci! Ecco la libertà regalataci dai Francesi! Che dovremmo noi dire di quella che dagl'Inglesi potrebbe l'Italia sperare? Le promesse e dispromesse di lord Bentink, la tergiversante, cupa, e turtuosa, condotta di quel gabinetto in tutti gli affari d'Europa, quella che tenne ultimamente rispetto al Portogallo avendo egli stesso consigliato ed animato il tiranno Miguel, a rientrare in Lisbona, e tosto le truppe sue, che quella città presidiavano ritirate, alfine di lasciare quella feroce tigre in arbitrio di saziare le sue scellerate brame nel sangue dei poveri Portoghesi, che quantunque tremanti, pel timore della mala fede inglese, avevano però seguito l'impulso costituzionale in certa qual apparenza dato dall'Inghiterra, e furono quindi, a bella posta ed a sangue freddo, al saccheggio, al carcere, al fuoco, all'assassinio, da essa crudelmente abbandonati! La liberalità, la virtù, l'umanità, di quel ministero già, è a tutto il mondo ben nota e sopra tutto la sua lealtà che dai fatti succitati chiaramente appare; noi non vogliamo supporre vi esista nessun Italiano di senno, che in buona fede speri nell'intervento di quella potenza, onde all'acquisto della sua independenza, e libertà, pervenire. Trattare poi della cooperazione, che a quell'uopo, si possa dall'Austria, Russia, o Prussia sperare, ci parrebbe altrettanto ridicolo, per chi lo trattasse, come sciocco per chi potesse pensarlo; infine consultino con attenzione le storie, e guardino gl'Italiani se v'ha in quelle un solo esempio che le bajonette straniere abbiano mai una divisa nazione unita, o resa forte quando era debole, che le abbiano data l'independenza quando potevano dominarla; e la libertà, quando più forte si potevano da quella come schiava far servire? Sappiano gl'Italiani, che nulla hanno da sperare dall'estero, se non catene o guai; che non saran mai felici, se non si sentono da loro stessi capaci di quella felicità procurarsi, che mai potrà dalle bajonette degli stranieri emergere! Chi non è da per se atto a procacciarsi la felicità, e d'uopo, è ad uno più forte di lui per ottenerla, sommessamente ricorrere, tardi o tosto sempre se ne avrà da pentire, imperciocchè l'umiltà, e l'obbedienza che debbono sempre il ricorso al forte accompagnare, mettono il ricorrente nell'intera dependenza sua, egli se ne approfitta pel solo suo particolare vantaggio, e nulla più si cura delle promesse fatte, di far felice il debole imbecille che in lui aveva tutte le sue speranze, riposte.

      Altri vi sono, che ben conoscono, il niun conto, in che si deve un appoggio straniero, tenere, se veramente si ha per iscopo la felicità d'Italia, che riconoscono pure la facilità d'acquistarla, se fermamente la maggior parte degl'Italiani la vuole; ma che, per sciocchezza o per debolezza di spirito, e di cuore, o per educazione assuefatti a veder nero, ciò che in fatti è bianco, a considerare il giusto per l'ingiusto, e così viceversa, dichiaransi amatori della cosa, ma non dei mezzi da impiegarsi per ottenerla, e così dicendo nulla dicono di vaglia, e coloro dansi per paurosi, colla maschera d'umanità, e diritto, a divedere. Ci sia permesso, all'oggetto di persuadere questi ripugnanti al nome di rebellione, di citare le parole del celebre Wilkes, al parlamento d'Inghilterra, quando trattavasi della questione americana; sappiate dunque, diceva egli, che una resistenza che riesce a suo fine si chiama una rivoluzione, e non una ribellione; che il nome di rebellione, sta scritto sul dorso del sedizioso, che fugge, e quello di rivoluzione brilla in sul petto del guerriero vittorioso: nel vincere dunque sta la sentenza riposta, non nei mezzi adoperati; il male consiste solamente per noi nel mancare di cuore, imperciocchè tutte le ragioni d'insorgere sono dalla nostra parte. Ben lor conviene pure di conoscere, a quest'Italiani di parole, e non di fatti, i più dannosi alla patria che forse vi esistano, ciò che dice il celebre Locke! Cioè: che ogni governo legittimo deriva dal consentimento del popolo, perchè siccome gli uomini sono naturalmente eguali, nessuno possede il diritto d'ingiuriar gli altri, nella vita, salute, libertà, o proprietà, e nessuno di quanti compongono la società civile, è obbligato di star soggetto al capriccio degli altri, ma solamente a leggi fisse, e conosciute, fatte pel benefizio di tutti: non si debbono stabilire tasse, senza il previo consenso della maggiorità espresso dal popolo stesso, o dai suoi delegati; i re, i principi, i magistrati ed impiegati di ogni classe, non esercitano altra autorità legittima, che quella stata loro delegata dalla nazione, e pertanto quando quest'autorità non s'impiega in prò della communità, allora il popolo ha diritto di riassumerla, in qualunque mani sia essa collocata: saravvi alcuno che osi ancora opporsi al giudizio di questo valente, e rinomatissimo scrittore? chi si opponesse, non potrebbe esentarsi dalla taccia di scioccone imbecille, o di malvagio inumano; eseguiscono i principi d'Italia, quanto dice Locke, esser loro dovere di eseguire? No; commettono essi quei delitti pei quali, dice il citato autore, aver diritto


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