Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana. Giuseppe Rovani
piegati i ginocchi a Lodovico XII, provò tanto ribrezzo di quella generale abbiezione, che in prima tentò ricorrere al flagello dell'ironia per mettere un po' di buon senso in tante teste vacue, ma non riuscitogli un tal tentativo, ed accorgendosi ormai di venire sgradito alla maggior parte, risolse ritrarsi in tutto a far vita privata. Scacciati poi i Francesi, e venuto Massimiliano al ducato, sentì tanto sdegno al vedere come quel giovane leggero e spensierato avesse mandato in dileguo tutte le buone speranze che si erano concepite di lui, che non volle più saper nulla di nulla, e a troncare ogni occasione di nuove contese e di nuove noie coi patrizii colleghi che s'affannavano a provargli quanto meglio si vivesse sotto Luigi XII, levò persino il saluto ad una quantità infinita di gentiluomini che gli movevano i dispetti soltanto a vederli, e, quel che aveva risoluto, fece in effetto.
Ma un uomo di tanta suscettibilità, non poteva certamente far della sua casa una cella da penitente solitario; tutt'altro. In prima, non aveva, a quanto egli ne sapeva, nessuna colpa da espiare; poi, la natura, pel suo solito sistema di compensazione, a quelle sue straordinarie virtù aveva unito un fardello molto considerevole di vizi, ai quali, appena che le sue virtù si misero in istato di quiescenza e di letargo, fu permesso di uscir fuori liberamente e di far il loro comodo. Non è rarissimo il caso che, un uomo il quale trovi ingombra la via per la quale si sarebbe messo con grandissima alacrità, e non trovi la natura dei tempi acconcia all'indole del proprio ingegno e della volontà propria, non potendo in altra guisa dare uscita alla vitalità soverchia che gli ferve nelle vene, procuri sbalordirsi coll'ebbrezza e colla vertigine delle voluttà che smorzano l'intelligenza e ottundano i sensi.
E dal momento che il conte Mandello erasi ritirato dalla società, questa, che mai non lo volle perdere di vista, vide svilupparsi in lui due qualità delle quali certo doveva essere antico il germe in lui: la concupiscenza e l'intemperanza. E non è a dire quanto la critica invidiosa de' patrizi colleghi si bagnasse volontieri in quelle pozzanghere, e si gettasse a corpo perduto sull'uomo che tanto aveva fatto per non esser più riconoscibile.
Fu detto che nelle aule saliche di Carlo Magno, il numero delle amanti regali pareggiasse quello degl'insetti in un bel giorno d'estate. E la cronaca pretende, che il conte Galeazzo avesse fatto degli studi forti su Carlo Magno, e fosse preso dal contagioso desiderio d'imitarlo. È fama che i più insigni bevitori d'Europa fossero in quel tempo i borghesi di Gand, ma siamo assicurati che, se per caso si fosse trovato a far testa a qualcheduno di coloro, il conte avrebbe fatto tuttavia la prima figura.
È difficile a sapersi come mai abbia potuto svilupparsi in quel degno gentiluomo un amore così appassionato per il buon vino, ma è certo che il patriziato calunniatore, al quale il conte era argomento assiduo di parlari diversi, affermava ch'esso non era fresco di mente la mattina più di quel che il fosse alla sera, e ciò, colle debite restrizioni, poteva esser vero. Del resto, v'era un fenomeno ben notabile in quell'uomo singolare, ed è che il suo mirabile buon senso veniva sempre a galla dell'oltrapò, del quale, come sappiamo, egli era tenerissimo. Avveniva bensì, allorquando i vapori gli andavano alla testa, che la frase non fosse sempre purissima, che la parola penasse ad uscirgli di bocca, e quando pure ne uscisse, fosse a strascico, a frastagli, smozzicata. Ma l'idea era sempre lucida, ma il vero era quasi sempre colto. Si raccontano miracoli del sonnambulismo, e noi ne mettiamo qui uno cospicuo dell'ebrietà.
CAPITOLO VII.
Ma lasciamo or da parte l'indole di costui, e teniam dietro piuttosto a' suoi passi e a quelli del suo giovane amico. Prendendo dunque così a caso, nel recarsi dal marchese Besozzo, per una delle più frequentate contrade di Milano, della quale era principale ornamento un vasto e magnifico palazzo di architettura gotica del secolo XIII, allora appartenente in proprietà ad una vecchia marchesa, di cui la storia non s'è presa la briga di tramandare il nome sino a noi, l'attenzione del Palavicino e del conte Galeazzo dovette necessariamente essere fermata dall'eccessivo splendore che riboccava dalle finestre appunto di quel palazzo, talchè pareva quasi fosse tutto quanto in fiamme; ma in fiamme non era certamente, perchè invece di strilli e di pianti e di voci lamentevoli, gli orecchi venivano intronati da un frastornio festoso da certi suoni e strimpellamenti e canti, i quali, manifestamente erano indizio di un'allegria smodata, di una gazzarra baccante. E ciò che produceva un'antitesi assai curiosa, era il genere di quei suoni e di que' canti, e la dignitosa magnificenza del palazzo. Canzonaccie per sè stesse sguajate, ma rese ancor più sguajate dalla natura delle voci strillanti che le mandavan fuori, pifferi e cornamuse e tiorbe e ribebe a due corde con accompagnamento di tamburelli, quali solevansi udire il giovedì e il sabbato grasso nelle bettole del Ponte Vetro, del Verzaro, del Bottonuto, con questa differenza, che tutte le orchestre particolari di ciascuna bettola erano state unite insieme e messe tutte a contributo per produrre il maggior frastuono possibile. Ogni tanto poi a qualcheduna di quelle finestre si vedeva comparire improvvisamente una figura d'uomo, la cui massa nera spiccava tagliata sul fondo luminoso delle sale, a mandare qualche acuto strillo che percorresse tutta la longitudine della contrada, a sacramentare per celia, a rivolger parole ed orazioni altitonanti alla folla che, stipata innanzi al palazzo, rispondeva con altri schiamazzi ed altre grida a quelle che facevano rimbombare le interne vôlte. Ed era una cosa strana, e che facilmente produceva la giocondità e il buon umore, il pensare a chi apparteneva quel palazzo, e l'uso che di presente se ne faceva. La marchesa proprietaria, vedova già da trent'anni, era vecchia, era ricchissima, era pinzocchera, era santa ed avara, due qualità che non potrebbero camminar di conserva, ma dessa ci avea trovato il modo. Ritirata in un cantuccio del palazzo, in una celletta oscura, conduceva una vita che avrebbe potuto essere un esempio cospicuo dell'umiltà cristiana, se i ventimila fiorini d'oro che tutti gli anni entravano a dormire un riposo eterno nelle casse ferrate intorno alle quali biascicando paternostri ella faceva la ronda piena di paurosa e gelosa sollecitudine, non avessero dato indizio che nel cervello della settantenne marchesa, c'era qualche cosa di guasto. Ora i ladri, i tôffi, i caramogi di porta Tosa, e tutta la parte più lercia della popolazione milanese, che conoscevano molto bene la vecchia, e il morto che teneva nascosto, aveva pensato prendere d'assalto il suo gotico palazzo e compensarlo in una sola notte della lunga solitudine e del profondo silenzio nel quale aveva passato trent'anni continui, giacchè il marchese defunto era stato un assai magnifico signore, e non s'era stato a dondolare. I pochi servi che, colla palandrana grattugiata, cadevano a brandelli per la vecchiaia, come le imposte tarlate e scardinate della porta del palazzo, non avevano saputo far testa pur un momento, e l'irruzione era stata così impetuosa, che in un istante tutto il palazzo fu gremito di popolaccio, il quale, sfondati gli usci, sfracellate le antiche vetriere, s'era precipitato in quegl'immensi e ricchi saloni che da tanto tempo eran vuoti, solitarj e silenziosi. Abbiamo detto che in questa notte memorabile la plebe, assai più che dall'istinto della violenza brutale, era animata da un buon umore straordinario, chè più che tutto gli premeva godersi quelle poche ore in tutta libertà, intanto che la legge, come talvolta accadeva pur troppo di que' giorni, trattenuta dalla chiragra, se ne stava a far capolino, ed ammicava irata e impotente dalle finestre del palazzo di giustizia.
Appena dunque che la folla, avvolta in un denso spolverío che s'alzava da tutte le parti, si trovò in quelle sale dorate, e al lume di certi razzi, di certi lampioni e lanterne che taluni facendo notte oscura aveva portate con sè, s'erano accorti delle lampade di cristallo che pendevano in lunga e densa fila dalle vôlte delle sale, subito s'alzò una voce strillante fra quella numerosa folla:
—Non si può negare che qui si stia assai meglio che alla taverna della Colonnetta, e se stanotte si aveva a strimpellare colà colle tiorbe dello Squinterna, e fare una scorpacciata di cipolle coll'olio di merluzzo che raspa in gola, per adesso ho cambiato parere, e l'oste potrà benissimo saltar lui con quella maladetta balena d'Onofria sua moglie, ch'io voglio far gazzarra qui stanotte.
E uno scoppio d'urli con accompagnamento di battimani disperati, avendo dato indizio che un simile partito era stato accolto a maggioranza di voti, in fretta e in furia un centinajo di bordellieri si sparpagliarono per tutti i canti della città, gli uni a reclutar pifferi e tromboni storti e tamburelli e ribebe e unicordi e tiorbe, gli altri a insaccarsi in tutti gli angiporti della città, destando dall'impuro letargo gli sciami schifosi delle briffalde, le quali, volessero