Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana. Giuseppe Rovani

Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana - Giuseppe Rovani


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mai la forza del tuo braccio non ti valesse più che tanto, sai dov'è il mio palazzo. Bada dunque che costoro si ritraggono presto, e lascino in pace la vecchia.

      Ciò detto il conte Galeazzo uscì. Quando fu sotto gli atri, s'incontrò in un vecchio servo della contessa, che lo conobbe, e gli disse:

      —In che modo ella è qui, illustrissimo signor conte?

      —Ci venni, ma me ne vado.

      —Se vostra signoria illustrissima si recasse un tratto a confortar la contessa, farebbe opera caritatevole. Ella teme che da un momento all'altro questi furfanti entrano da lei a furia, e trema di spavento.

      —Questo non può succedere. Andate a dirlo alla contessa.

      —Se ci andaste voi medesimo, illustrissimo, sarebbe assai meglio.

       Ella si conforterebbe vedendovi.

      —Se ciò è, andiamo.

      Il servo allora condusse il conte per molti corritoj, e pervenuto finalmente a una porta, bussò, dandosi a conoscere; una voce acuta, fessa e tremolante domandò che cosa fosse.

      —È l'illustrissimo signor conte Mandello che è venuto in palazzo a sedare il tumulto, rispose il servo.

      Allora l'uscio fu aperto, e il conte entrando vide una camera assai poveramente addobbata, una vecchia fantesca in piedi, e la contessa seduta. Nella camera non c'era che una tavola, due seggiole, un inginocchiatojo, un Cristo in croce e un grosso libro nero. Il Mandello girato l'occhio intorno:—Mi maraviglio, disse, che voi ve ne stiate in questo sozzo bugigattolo, mentre la canaglia sta contemplando il proprio ceffo ne' vostri specchi e saltando, sfilaccia il velluto delle vostre sale.

      —Capirete dunque, ella disse, che se si continua di tal passo, non c'è più che la fine del mondo.

      —Questo potrebbe darsi, contessa; pure avrete la bontà di confessare, che il torto, ben più che d'altri, è vostro questa volta,

      —È mio? Chi vi può capire?

      —Date per amore quel che vi cresce, contessa, che nessuno verrà a prenderselo per forza…

      —E che dunque avrei dovuto fare?

      —L'opposto di ciò che avete sempre fatto.

      —Sentite, conte, se siete venuto qui per farmi ingiuria, potrete anche andarvene.

      —Son venuto qui per dirvi, che mettiate da canto ogni paura, che quel ch'è successo è successo, e se alla vostra cassa si cavò il sangue, non sarà cavato a voi; questo voleva dirvi.

      —Dunque tutto è perduto?

      —In che modo? se tutto è guadagnato invece.

      —Che cosa dite? Io non vi comprendo.

      —I tempi sono assai scarsi, contessa, e se la povera gente levò stassera la muffa ai vostri ducati, che da quest'ora prenderanno aria e circoleranno a furia, è innegabile che molto siasi guadagnato; ne dovrete convenire anche voi…

      —Andate; voi siete più tristo di tutti costoro. Andate, lasciatemi in pace una volta.

      —E in pace vi lascerò; soltanto badate a ringraziarmi, e fate che la lezione vi giovi. Io vi auguro la buona notte.

      E il conte ghignando, si tolse di là e uscì di palazzo.

      Liberatosi che si fu dalla folla, che ancora innondava quella contrada, pensò che poteva ancora recarsi alla casa del conte Besozzo, dove si raccoglievano i patrizi che stavano pel duca, ossia i patrizi ghibellini, e l'un passo dopo l'altro in fatti, attraversando lentamente buona parte della città, per osservare quanto ci si faceva dal popolo in quella straordinaria circostanza, pochi momenti dopo ch'eran cessati i rintocchi della campana grossa de' Mercanti, si trovò sulla piazza di S. Ambrogio, dov'era il palazzo Besozzo. Ma in quella ch'egli stava per entrarvi, ne uscirono appunto in folla quei che vi si erano raccolti, e le parole e le esortazioni e i diverbi e le dispute continuavano ancora nel loro massimo fervore.

      Il Palavicino quando s'accorse del conte Galeazzo:—Sei giunto in tempo, gli disse, ma fu peccato che tu non abbia potuto udire le calde parole del vecchio Besozzo.

      —Per quanto io abbia stima di questo vecchio onorato, rispose il conte, pur non credo d'aver nulla perduto, che quando uno ha fermo il suo partito, le esortazioni sono inutili, e quand'uno ha in animo di far l'opposto, altro che parole ci vogliono, caro Manfredo. Dunque che cosa avete stabilito?

      —Nulla che tu non sappia per verità. Domani all'alba ci raccoglierem tutti in castello.

      —E non c'è a far altro?

      —Null'altro, io credo, fuorchè a menar le mani da valorosi, quando sarà il momento.

      —E questo è ciò che faremo, se non foss'altro, per mantenere l'esercizio.

      —Per questo solo?

      —Credo bene che basti; il berretto lo portai sempre alla mia foggia, nè a' guelfi nè a' ghibellini è mai riuscito d'iscrivermi nelle loro tabelle; la mia cappa non ha colore… per adesso almeno.

      Ciò detto, accompagnatosi con Manfredo, e ripercorsa con lui buona parte della città, come la notte fu innoltrata, e i cittadini anche i più turbolenti, si riducevano alle case loro, e Milano tornava tranquilla e silenziosa, se ne venne al proprio palazzo. Qui strettasi la mano:—A rivederci all'alba! sclamarono i due amici, e si lasciarono.

       Indice

      Licenziatosi così il Palavicino, e pensato se avesse dato ordine a tuttociò che gli sarebbe abbisognato per il giorno successivo, si ridusse anch'esso finalmente alla sua casa, eh'era in via a S. Erasmo, contrada che ora non esiste più, ma che doveva, senza dubbio, trovarsi lì fra quelle di Borgonuovo e dell'Annunciata.

      Il giovane, nel far la via così solo, si sentiva nell'animo un peso, un'arrovesciatura, una, a dir così, presaga tristezza che, a lui medesimo, riuscivano assai strane. Era quella, per dir vero, la vigilia dì un gran giorno; pure non era la prima volta ch'esso trovavasi in simili contingenze; nè al mondo vi era uomo di lui più coraggioso e men curante della vita, ma la cattiva condizione della città sua, le parole che in quel giorno aveagli detto il Morone, alla cui straordinaria conoscenza delle cose bisognava pur credere, lo mettevano in gran pensiero.

      Considerava poi come e quanto dall'esito della vicina battaglia, dipendesse l'assoluta destinazione del resto del viver suo per quanto spettava la figlia del Bentivoglio, signor di Bologna, il quale, se Francia avesse trionfato, com'era a presumersi, mai non sarebbesi indotto, nella speranza di più alti destini, a concedere la propria figlia ad un semplice gentiluomo. Con questi pensieri giunse finalmente alla soglia del proprio palazzo; ma qui, tentato da un altro improvviso pensiero si fermò di tratto e fu a un punto di rimettersi in via. Gli era entrato il desiderio di recarsi ad una tal casa, dove soleva praticare la madre sua, a prender commiato ed a ricevere la materna benedizione prima della battaglia. Considerando però che innanzi a quella donna, alle parole, al pianto di lei, non avrebbe potuto star saldo, e se ne sarebbe allontanato più tristo che mai, fermò non farne altro, e senza più salì nel proprio appartamento.

      Dati alcuni ordini al servo che gli faceva lume, ed esaminate con lui parte a parte le sue armi, ch'eran già preparate, non avendo a far altro, lo licenziò raccomandandogli gli entrasse in camera due ore prima dell'alba, e si chiuse dentro disponendosi a buttarsi così sul letto per quelle ore che rimanevano.

      Allora, accostatosi così per caso ad uno de' finestroni che rispondevano sulla contrada, ed erano aperti, gli giunse all'orecchio, proprio dal piede del proprio palazzo, un barattar di parole frequente e vivacissimo tra molte persone quasi si stesse a porre in consulto alcuna cosa di gravissimo momento. Per essere l'ora ben tarda, e la via tra le più remote e silenziose della città, si poteva intendere benissimo qualunque cosa vi si dicesse; pure


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