Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana. Giuseppe Rovani

Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana - Giuseppe Rovani


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altitonanti, dovettero sgomitolarsi come vipere intrecciate al sole che sian percosse da una verga e seguire la turba. Altri a spandersi per le botteghe dei vend'arrosti, sagrando e minacciando perchè subito s'allestisse tutto quanto era sui fornelli. Fatto sta, che in poco d'ora tutto fu in ordine, in un momento la folla già stipata si raddoppiò per gli atrii e per le sale; tutto il putridume e la mondiglia che stava accatastata nelle cloache e ne' mondazzai della città si scaricarono in quel sontuoso palazzo. Nelle lampade di cristallo si mise olio quanto bastasse a fare grosse fiamme; e torcie e razzi e fiaccole e lanterne e lampioni furono aggiunti ad accrescere l'illuminazione e a far giorno di notte. Tutto però non avea potuto condursi colla tranquillità medesima, chè quando corse voce che il Cecco ferrajo aveva scassinata la cassa, la folla, attirata dai fiorini della marchesa, s'era riversata così impetuosa nell'angusto camerotto, che la quantità delle teste ammaccate e delle sorbe sugli occhi fu innumerevole. A questo punto eran dunque le cose quando il conte Galeazzo e il Palavicino passarono a caso per di là.

      E appena che il conte ebbe udita la storia genuina del fatto, come preso da una repentina inspirazione, rivolto a Manfredo:—Mi pare, disse, che il conte Besozzo potrà benissimo far senza di noi stassera, che in ogni modo domani allo sparo delle artiglierie saremo in castello, la qual cosa è la sola che importi veramente. E intanto non si vuole non tener conto di un momento così prezioso senza entrare nelle sale della marchesa a godervi uno spettacolo che, per lo meno, è novissimo. Una festa da ballo composta di trecconi, di ladri e di ciccantoni che saltano sui tappeti dorati di Bologna e si riflettono negli specchi di Murano, è un fenomeno che non si vedrà la seconda volta. Lascia dunque il Besozzo e vieni con me.

      Qui ci furono alcune altre parole tra il Palavicino e il conte, il quale, finalmente lasciando che il Palavicino se ne andasse tutto solo dal Besozzo, entrò nel palazzo della marchesa.

      Appena che la cappa di velluto rasato e la collana d'oro del conte Galeazzo comparve nella gran sala dove infuriavano l'orgie, a tutta prima scoppiò un urlo generale che non pareva prometter nulla di buono per lui, e tutti i pantanosi caramogi, come ranocchi sconcertati dall'improvvisa comparsa di un luccio dorato, gracidarono minacciando di farlo in brani; ma il conte avea più di una cosa che militava a suo favore. In prima è da sapersi, ch'egli tutte le mattine, alla porta del proprio palazzo, faceva distribuire duecentocinquanta zuppe per la minutaglia affamata, ora buona parte di coloro che attendevano colà a far salti scomposti al suono di una trentina di tiorbe scordate, avevano appunto assaggiato più d'una volta i brodi della cucina del conte. Ciò per altro non sarebbe bastato a difenderlo dall'ira generale; ma più d'una volta il conte era stato veduto a far la via a zig-zag nel recarsi a casa la notte, e sapevasi da tutti che era il primo bevitore di Milano, e che andava soggetto a degli accessi d'ubbriachezza formidabili. Ora un uomo così amico del buon vino, e che più d'una volta sotto l'influenza di eccessivi vapori, che promovevano in lui gli estri guerreschi, s'era azzuffato coi sargenti della controronda, non poteva che aver destata l'ammirazione di quella parte di pubblico. Ma qui non era tutto ancora. Molte di quelle pudiche creature, che andavano a quarti ballando anfanate su quei ricchi tappeti, avevano più d'una volta avuto campo di ammirar la faccia del duca e dell'imperatore Massimiliano sui piccoli fiorini d'oro del conte, e non s'eran mai potuto far capaci del come un sì grande gentiluomo si degnasse salire per quelle scalette di legno dove era tanto facile fiaccarsi il collo, ciò che per altro non impediva loro di tenere il grandissimo conto l'affabile e liberale signore. Per tutte queste cagioni adunque, appena che egli fu conosciuto, gli urli minacciosi si cambiarono in grida d'applausi, cosa di cui il conte non avea potuto accorgersi, essendo rimaso come estatico appena gli si parò innanzi quel peregrino spettacolo.

      Quella sala era un vastissimo quadrilungo, con dodici colonne capitelli dorati; la vôlta, a sesto acuto, dipinta a ricchissimo mosaico con fondo d'oro, le pareti rivestite di specchietti che quadruplicavano la grandezza della sala; il pavimento coperto di tappeti e d'arazzi, storiati in tessuto, di pazientissimo lavoro, i quali è vero bensì che, per incuria della marchesa, eran stati mezzo corrosi dalla polvere di treni'anni, ma spazzati in quella sera dalle danze carnascialesche, facevano tuttavia una splendidissima mostra. Si figuri il lettore che scandalosa antitesi dovesse fare con quelle magnificenze la schifosa moltitudine che stava là dentro. Quelle coppie di lerci danzanti e di oscene danzatrici, i primi colle palandrane sfilacciate, e le brache che cadevano a drappelloni, attraverso le quali si vedevan costole e trippe e gheroni in malissimo essere; le altre ancor più laide sotto a quell'apparenza di lusso inzaccherato di fango. Gonnelle di bucherame sparse di macchie d'unto, coi lembi sfilacciati, creste di canutiglia cariche di nastri di tutti i colori, che adornavano la arruffatte capigliature e quelle faccie quadre e sfrontate sparse di lividumi e di sorbe; e delle impronte dei pugni dei pochi gentili amanti. Nel mentre che le coppie attendevano a danzare, altri luridi gruppi gettati a sdraio sui tappeti attendevano a mangiare dello strutto, che impregnava d'un forte odore l'atmosfera, già abbastanza impuro, di quella sala. E intanto che le tiorbe e le cornette storte ci davan dentro a perdiafiato, alcuni mezzi ubbriachi, saliti in vetta alle colonne, aggrappatisi sugli accanti dei capitelli, cantavano con certe voci acute in chiave di clarinetto e d'ottavino alcune oscene canzonacce, mentre con del carbone facevan turpi aggiunte alle Veneri dipinte a mosaico in campo d'oro. La stranezza di quella scena in somma somigliava più che altro ad uno di quei sogni arruffati che può fare un galantuomo il quale si corichi subito dopo una scorpacciata d'ostriche e d'anguille marinate.

      Però il conte Galeazzo, appena ebbe appagata la propria curiosità, non potendo a lungo dilettarsi di quelle sozze stranezze, già pensava d'uscire, quando gli passò innanzi la corpulente figura del Cecco ferraio che gli volse un'occhiata alla sfuggita.

      Il conte gli mise allora una mano sulla spalla, e gli disse:

      —E così, Cecco, come si metton le cose?

      —Ottimamente, illustrissimo; peccato ch'ei sia di paglia quel che abbrucia, e la fiamma debba spegnersi tra poco.

      —Non mi par poi che tutto sia paglia, Cecco mio; tu mi comprendi….

      —Ci fu qualcosa meglio che paglia in fatti, rispose il ferraio ridendo, questo è verissimo; pure non fu gran cosa. E la contessa, Dio sa dove ha nascosto quello che in tanti anni andò ammassando, perchè quel che a me venne fatto di toccare, è ben poco.

      —Pure ti dovresti contentare di ciò che hai trovato, e star pago,

      —Non faccio altro infatti; e costoro son contenti abbastanza, ed è per costoro che ho tentata la virtù del grimaldello. Della pesca che ho fatto toccò la sua parte dì pesce a ciascuno, e la porzion mia è pari all'altrui, onde vedete che ho lavorato gratis, e per solo amore del prossimo.

      —Questo mi piace; pure non avresti dovuto nemmeno far questo.

      —Siete in errore, illustrissimo; e in quanto a me non feci mai cosa, di cui tanto mi compiacessi in vita mia, ed è per lei che spero di ottenere la remissione de' miei peccati. Del resto, considerate bene; o la contessa si ravvede, e va ottimamente o sta caparba nella sua pilaccherìa, e meglio ancora, perchè così la faremo morire di crepacuore. In quanto poi a costoro, un centinaio di ducati per ciascuno è un grande aiuto; non c'è infine cosa più dannosa al mondo dell'oro che stagna in una cassa ferrata, e se la zecca gli fa il conio rotondo, vuol dire che la sua destinazione è quella di girare per le mani di tutti. Dunque vedete che io ho operato benissimo.

      —Sei tu convinto di ciò?

      —Lo sono.

      —Ebbene, or fa ch'io lo sia di quest'altro.

      —Dite pure.

      —Vorrei che mi provassi, che in fondo tu sei un uomo dabbene.

      —Qual caparra volete?

      —Giacchè hai compulsata la cassa, lascia in pace la contessa, e fa in modo che nessuno di costoro attenti alla sua vita.

      —S'egli è ciò solo che vi preme, siatene certo; lo spegnere l'ultimo fil d'aria che sostiene il suo carcame di vecchia, sarebbe un atto barbaro non solo, ma un atto inutile…. Vedete che ho fior di ingegno, dunque non ci pensiamo. E in quanto a costoro, se due terzi son schiuma di furfanti, pure nessuno farà quel ch'io non voglio; in tutto Milano non v'è braccio pari al mio, e a questo si porta


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