La novellaja fiorentina. Vittorio Imbriani

La novellaja fiorentina - Vittorio Imbriani


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del Giglio, si vende da Pasquale Albizzi presso le scalere di Badia; e precisamente nella Scena IV del II Atto dell'Amicizia rinnovata, ossia La ragazza vana e civetta. Commedia in tre atti, v'è il seguente dialogo:—«Lisabetta. O questa, Liberata, la unnè la ostra figliola Caterina?»—«Liberata. Ell'è lei; ma che volech'o ch' i' vi dica; se egli è entrach' ibbaco di un voler essecchiamaca Caterina? Dice che gli è un nome vilio; la se l'è mutaco 'n Calorina.»—«Caterina. Carolina e non Calorina.»—«Liberata. Nè l'un nè l'oltre, dic'iccontadino. Ittò compare, requiesca, e' ti pose nome Catera; e io ti ó chiama Catera flnch'i' arò gola.»—«Lisabetta. E fache bene. Se ghi è tanto bello innome di Caterina: s'è' c'è fin le mandorle della Caterina. Vu un ghi sentiche gridà pelle strade: I' ho la Caterina, I' ho la Catera grossa: grossa, grossa la Catera.»—

      I tedeschi del vino ingordi e ghiotti

       Dietro a certi barili eran trascorsi,

       Che ne credeano far dolce rapina;

       E in cambio di verdea trovâr tonnina.

       Che là nel mezzo a' suoi nemici zomba, Di modo ch'essi sceman per bollire; Che, dove i colpi ella indirizza e piomba, Te gli manda in un subito a dormire, Che nè meno col suon della sua tromba Camprian gli farebbe risentire; E quanto brava, similmente accorta, A combattere i suoi così conforta.

      Ecco l'annotazione:—«Questo Campriano fu un contadino astuto, come s'è accennato sopra, Canto IV, stanza XLVII»—Vedi in nota alla fiaba di questa raccolta intitolata: Manfane, Tanfane e Zufilo—«e come si vede dalla sua favolosa storia stampata col titolo: Storia di Campriano, il quale per far denari trovò diverse invenzioni di gabbare le persone semplici: e fra l'altre quella d'una pentola, che bolliva senza fuoco, perchè da esso levata mentre che gagliardamente bolliva, e portata in mezzo a una stanza, la fece vedere al corrivo a cui voleva venderla. Costui, vedutala veramente bollire, senz'aver fuoco avanti, subito se ne invaghì, ed accordossi di comprarla pel prezzo che convennero. Giunto poi questo tale a casa con la pentola, e volendo senza fuoco farla bollire e non gli riuscendo, si querelò con Campriano dicendogli che l'avea ingannato. Campriano chiamò la moglie e la sgridò, dicendo che non potev'essere, se non che ella l'avesse cambiata. La donna, fingendo un gran timore, con gran lacrime confessò, che per averla inavvertentemente rotta, glien'aveva data un'altra simile, per la paura che avea del marito. Di che Campriano mostrandosi fieramente adirato, cavò fuori un coltello, e con esso ferì la moglie nel petto, dove ella avea ascosa sotto i panni una gran vescica piena di sangue, il quale sgorgando pareva che uscisse dalla ferita fattale da Campriano; per la quale fingendo la donna d'esser morta cascò in terra. Il gonzo si doleva che Campriano per causa così leggiera avesse commesso un delitto così grave; ma Campriano con faccia allegra gli disse: sebben la donna è morta, io saprò risuscitarla quando vorrò; perchè basta, che io suoni questa trombetta. E stimolato dal semplice a farlo, gli compiacque: e sonata la tromba, la donna si rizzò, mostrando di risuscitare; onde il semplice con grande istanza chiese la tromba a Campriano, il quale dopo molte preghiere a gran prezzo gliela vendè. Costui, andato a casa, prese occasione di gridar con la moglie, ed in fine le diede una pugnalata con la quale l'ammazzò; e poi si messe a suonar la tromba; ma quella infelice, essendo veramente morta, non risuscitò altrimenti. E per questa causa, e per altre sue sciagurataggini, fu Campriano condannato alla morte che dicemmo sopra C. IV, st. XLVII. E di questa tromba parla il poeta nel presente luogo.»

       Indice

      LA


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