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La novellaja fiorentina. Vittorio Imbriani
href="#ulink_51e91a4e-6c68-5b6a-88df-75133716f58d">[10] Gran sfarzo e più giù non stette. Da Dante al Berchet, dal Boccaccio al Manzoni,
Avess'io tanti gigliati
Nella vuota mia scarsella
quante volte i migliori scrittori han trascurato di metter l'aumento eufonico innanzi alla s impura preceduta da consonante, senza un riguardo al mondo per le nostre povere orecchie. Quest'urto disaggradevole di consonanti s'incontra nientemeno che in dugensettantatrè versi del solo Orlando innamorato del Bernia. Toscani, Lombardi, Meridionali hanno gareggiato nel trasgredir quella regola, che pure è fondata nell'indole stessa della lingua nostra. Già, anche il giusto incespica sette volte il giorno, e qui c'è l'esempio e la scusa dello abuso popolare. Ecco un gruzzoletto d'esempli autorevoli, da non imitarsi. Dante (Convito). Sue beltà piovon fiammelle di foco animate d'un spirito gentile. Bandello (Nov. XV). Tenendo il caso troppo vituperoso e il scorno grande. Marino (Adone, XIV, 95). Tosto, per porlo in su la tesa corda, E commetterlo all'aure, un strale ei prese. Stigliani (Mondo nuovo). Ell'era in somma in tutti i membri belli, Misurata ed egual non altrimenti, Ch'esser soglion le statue in fôro o in scena. Ecc. ecc. ecc.
[11] A proposito di baule, vedi, tra le commedie di Giambattista Fagiuoli, L'Astuto balordo (Atto primo, scena seconda): «Orazio. Il mio baule dove l'hai posato?»—«Meo. Ma, padrone, io non ho posato bauli in nessun luogo e non li ho visti mai de' miei dì.»—«Orazio. Dove son le mie robe, che si portarono iersera dietro al calesso?»—«Meo. Ah quella cassa di cuojo, tonda di sopra, che ha quelle manette dalle bande, con quelle bullette d'ottone in fila, ch'è serrata con una pallottola di ferro, per via d'uno stidione?»—«Orazio. Sì, quella....»— «Meo. E quella si chiama baule, eh?»—«Orazio. Sì bene.»—«Meo. O che nome, baule!»—«Orazio. Ora dov'è?»—«Meo. Questo baule, giacchè le casse alle vostre mani hanno ad aver nome baule, è in sala.»—
[12] Questa beffa del mezzo sbarbamento è narrata da parecchi. Anche l'Americano Barnum nelle sue memorie la racconta come facezia veramente accaduta. Neppure ne' più goffi scherzi sanno essere originali gli Americani;
......nation du hasard,
Sans tige, sans passé, sans histoire et sans art.
(Victor Hugo).
Bandello, parte I, novella XXV.—«Il giovine che bevuto non aveva, sapendo la virtù del vino, come vide questo, prese il corpo del fratello, e in luogo di quello v'appiccò uno degli otri e a casa se ne tornò tutto lieto; ma prima che si partisse agli addormentati guardiani la barba dal canto destro tagliò.»—Tutto l'episodio del convito dato da molti giovani ad altrettante ragazze che li alloppiano e derubano o sfregiano, più o men variato si ritrova appo il Pitrè (Op. cit.) ne' racconti intitolati Li tridici sbannuti (Palermo); Li dui figliastri (Casteltermini); Li Batioti (Cianciana); Soru Sosizzèdda (Vicari), Ecco il feroce scherzo che la protagonista fa a' mariuoli nel primo:—«S'assittaru a tavula e cuminciaru a manciari. 'Nta lu megghiu nisceru la buttigghina e l'alluppiaru a tutti: e ddocu chi vidistivu! cuminciaru a 'bbuccari. La picciotta, comu li vitti accussì, cci tagghia a cui lu nasu, a cui lu labbru, a cui lu jìditu: li fici stari 'na piatà. 'Un cuntenta di chistu, li so cumpagni si pigghiaru tutti cosi e si nni jeru. Jamu a li sbannuti. Quannu si sbriacaru, cuminciaru a dirisi: Chi si' curiusu! ti manca lu nasu!—E a tia lu labbru!—E a tia lu jìditu!—E ddocu cunsiddirati la rabbia.»—
[13] Siccome non ho altro da darvi, e più giù siccome ti voglio bene, e siccome io non tengo rancori. Daccapo siccome nel significato di poichè! Sozzo gallicismo, che mi urta i nervi. Figuratevi come li debba avere urtati, poichè veramente l'uso di questo siccome è divenuto universale. Mi amareggia persin la lettura dell'autobiografia alfierana.
[14] Così nella rappresentazione di Don Giovanni, ho sentito il burattinajo far dire alla statua del commendatore: Pèntiti, Don Giovanni! e far rispondere al protagonista: Non mi voglio pèntere!
V.
IL MONDO SOTTOTERRA.[1]
C'era una volta un omo che aveva tre figlioli. Si sa bene che più che vecchi non si campa; quest'omo, prima di morire, chiama i figlioli al letto e gli dice:—«Sentite ragazzi. Vedete, io sono per morire: mi raccomando che voi stiate in pace. E questo po' di roba, fatene le parti uguali.»—Dunque questo viene a morte, e non se ne parla più; e rimane questi tre figlioli poeri[2].—«Come si deve fare?»—dicono.—«Si venderà questo po' di roba e ci si metterà in viaggio per vedere se si fa fortuna.»—Vendon la roba e poi vanno via. Quando sono per la strada camminan quanton[3] posson camminare, e si mettono in un'osteria a mangiar qualcosa, perchè avevan fame, sapete? Poi si rimettono in viaggio e cammina cammina si trovano sur una bella piazza. E si voltano e vedono una lapide che ci diceva: Il Mondo sottoterra. E questi ragazzi trovano una casa di un contadino e picchiano. Dice:—«Ci dareste un corbello, una fune ed un campanello? Or ora noi vi si riporta?»—Questi contadini gnene dànno e loro si mettono ad alzà' questa lapide. L'alzano. Dice il maggiore:—«Entrerò io in questo corbello. Quando sentite ch'io sôno, tiratemi su; gli è segno che non trovo il fondo.»—Più che gli andava in giù, più bujo, più bujo. Sona il campanello e vien su. Quell'altro fratello—«Ma perchè?»—dice.—«Ora, ora, che vado io!»—Entra lui e va giù. Anche codesto, quando gli è a un dato punto, sona e ritorna in su: gua', non trovava fondo! Dice il minore:—«Anderò io. O che si mora di fame, o che si mora nell'andare giù, gli è la medesima: qualcosa sarà di me.»——E così entra nel corbello e va giù, giù, giù: sino in fondo. E vede un cortile. Guarda: di qui morti, di qua morti, tutti morti attaccati. In mentre gli è lì a guardare i morti, sente dire:—«Che fai tu costì?»—Dice, poerino:—«Siamo venuti a cercar fortuna. Siamo tre figlioli che ci è morto il babbo. Siamo in estremo bisogno.»—«Ah poerino!»—dice—«tu non lo sai? Tu non vedi come sono questi morti? Come sei venuto te? Tu sarai come loro.»—«Perchè?»—«Ora ti dirò il perchè. Abbi da sapere che ci è un gigante che tiene una Regina tutta incatenata. Se ti riescisse d'ammazzarlo, tu l'avresti pur troppo la sorte. Tieni!»—dice:—«Questo è un mazzo di chiavi e questa è una falce. Va avanti. Ci sono sette porte da aprire da questo gigante. Se tu siei bravo e lesto con questa falce di tagliargli la testa, tu siei un signore.»—E sparisce il vecchio. Questo povero giovane comincia ad aprire una porta, ne apre un'altra, infino a sei[4]. Quando gli è all'ultima sente uno scatenìo, un rumore d'armi: era il gigante, che sentendo avvicinare il nemico, arrotava le armi. E lui un timor pànico, non sapeva neppure cosa si fare. Si fa coraggio, apre l'uscio, e con la falce lo piglia così alla gola e il gigante casca a terra. Appena cascato a terra, un urlìo:—«Eccolo il nostro salvatore! eccolo il nostro liberatore!»—Va dietro alle voci e trova la porta in dove era incatenata la Regina. Apre e vede questa disgraziata poerina lì più morta che viva, piena di catene. Gli apre le catene, gli leva tutte quelle che vede. Dice:—«Voi sarete il mio sposo, voi mi avete salvata la vita.»—Prendono tutte le ricchezze che c'eran lì: e mettono tanta roba nel corbello; sonano e i fratelli tiran su, e veggono questa gran ricchezza di quattrini, d'oro, di tutto. Ricalano il corbello: per quattro volte il corbello fu pieno di queste gran ricchezze. Finalmente il fratello minore mette la sposa nel corbello, perchè la tirin su. I fratelli che veggon