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La novellaja fiorentina. Vittorio Imbriani
lesti: ora vi vengo ad aprire, appena sono addormentate».—Giovanna non stette a dir: che c'è? Preso il pellegrino per le gambe, lo scaraventò di sotto. Fortuna che la finestra era bassa! Il Re battè il capo sull'erba, ma non morì: soltanto si svenne, per cui i compagni lo portarono via a braccia sino al palazzo e lo messero a letto. Nulla di meno al Re venne una grossa malattia, e tutti credevano che in breve se n'anderebbe. Il male era più di amore sprezzato, che altro; i medici non sapevano che mesticciarsi per rinsanichirlo, non intendendo, secondo il solito, che cosa avesse il Re. Intanto Giovanna stava in paura, e quando riseppe dalla gente che il Re era malato, si propose rimediare al malfatto, e pensò travestirsi da dottore e visitare il Re, perchè gli rincresceva che fosse ridotto a quel modo. A malgrado delle rimostranze della Principessa, Giovanna volle fare a modo suo, e giunta al palazzo reale, si fece annunziare come un medico capace di guarire sua Maestà. Disse:—«Io la cura la fo a quattr'occhi co' miei ammalati. E per grida che mandino, non permetto che nessuno accorra. Ma la guarigione è certa».—Credendo ciascuno il caso perduto, si promise a Giovanna di eseguire i suoi comandamenti: e lei, venuta al letto del Re, cavato un buon nerbo, con quello gliene dette tante sinchè non lo vidde svenuto: allora lo rinvoltolò nelle lenzola e poi se n'andò. Pochi giorni dopo il Re uscì dal letto guarito. Ma Giovanna e le sue compagne avevano fatto fagotto e se n'erano a gambe ritornate presso il padre della Principessa; temendo la vendetta del Re burlato in tante maniere e di più nerbato. Questo però, incaponitosi di possedere Giovanna, chè pur si addiede lei fosse stata la sua guaritora, ordinato il corteo d'accompagnamento, venne al reame in cui abitava Giovanna, e per farla sbrigativa, la richiese in moglie. Il padre della Principessa cancugnò, sospettando che quel Re volesse Giovanna fra le mani per gastigarla. Ma Giovanna ardita e vogliolosa di diventar Regina, cavò la paura di capo al suo padrone, sicchè questo, datagli una dote reale e sposatala egli medesimo, gli disse addio. E lei partì col marito, non senza lacrime della Principessa e sue. Quantunque il Re marito adorasse Giovanna, pure aveva una gran bramosia che la scontasse le beffeggiature e le offese che lei gli aveva recate: e Giovanna, furba, stava con tanto di occhi aperti, sicchè di nascosto ordinò che gli fabbricassero una donna di pasta, e acconciatala nelle casse del corredo la portò con sè. Quando la prima notte gli sposi furono per entrare a letto, Giovanna colla scusa di vergognarsi, non volle il lume in camera. E una volta spento e restati al bujo, lei zitta zitta infilzò la donna di pasta tra le lenzola e poi ci si messe accanto, ma in ginocchio sul tappeto in terra contro la sponda dei letto. Il Re, sdrajatosi, principiò a dire:—«Tu siè' stata con me di molto ardita e traditora, Giovanna! Sarebbe questo il momento di gastigarti: ma siccome ti voglio bene, mi stimerò soddisfatto che tu mi chieda perdono e tu mi prometta che simili cose non le farai più.»—E Giovanna lì accosto con una voce da burla:—«Non mi pento di nulla; e quando mi capita, farò come prima[14].»—Il Re allora inferocito, agguanta la spada che aveva a capo del letto e giù un picchio sulla donna di pasta, che credeva essere Giovanna, e gli taglia netta la testa. Se non che, sbollorata la furia, tastando, sente un corpo freddo, e non è a dirsi se diede in disperazioni dubitando avere ammazzato la moglie. Salta dal letto, esce di camera e chiama gente con lumi; i servitori e i cortigiani accorrono. Intanto Giovanna, tolta prestamente la donna di pasta smozzicata e ripostala, lei stessa si messe in luogo di quella, e finse d'essere ferita, tingendosi il collo con del sangue serbato in una vescica, e pareva come moribonda. Quando il Re colle persone del seguito rientrò in camera, si buttò a traverso il letto con gran pianti. E si strappava i capelli, accusando la sua maledetta rabbia, e non poteva darsi pace di avere ammazzato Giovanna. E Giovanna, lasciatolo un po' disperare, finalmente con meraviglia di tutti, si rizza a sedere e dice:—«Signori! veramente, se dovessi badare al trattamento del mio sposo la prima notte del matrimonio, io dovrei pigliare la robba mia e tornarmene là da dove sono venuta. Ma siccome io non tengo rancori e penso che quanto il Re ha fatto provenne da un po' di subita mattia, oramai quel che è stato è stato e non ci si pensi più. Soltanto, il Re esca di camera e mi lasci rimettere dalla paura che ho avuto.»—Il Re gli consentì ogni cosa, gli domandò perdono e gli dette arbitrio di chiamarlo accanto a lei quando gli piacesse e fosse rinsanichita. Giovanna fece le viste di stare malata per qualche tempo e alla perfine fatta la pace collo sposo, vissero allegri e contenti, e credo ancora lo sieno.
In santa pace pia, Dite la vostra, che ho detta la mia.
NOTE
[1] Variante della Fiaba precedente intitolata La Verdea. La debbo al prof. avv. Gherardo Nerucci che la raccolse da Silvia Vannucchi del Montale—Pistojese.
[2] Il quale e la quale, pronomi, non sono di nessun dialetto toscano: (bene hanno essi la frase per la quale, ma vuol dire altra cosa). I Giorginiani, che vorrebbero ridurre la lingua allo stretto volgar di Firenze, ci priverebbero di questo pronome. Con quanto discapito, lascio dire a chiunque è costretto a far periodi un po' complicati dal tema che tratta, ne' quali non giunge a mettere un po' di chiarezza che alternando sapientemente che ed il quale nelle subordinate.
[3] Un figlio di Re che non ride mai, malgrado ogni opera ed industria de' servitori, si trova nella Introduzione del Pentamerone e spesso nelle fiabe.
[4] Come se le guardie l'avesser dovuta conoscere. Così raccontano a Napoli d'uno studente calabrese che si affacciò alla ferrata della posta, chiedendo se ci fosser lettere di suo padre. N'era giunta una con questo indirizzo: A mio figlio, vestito di nero, in Napoli. Gliela consegnarono senz'altro, stimando non senza ragione tal doppia prova d'insolita semplicità esser dimostrazione di parentela.
[5] Gestri per gesti. Nota l'intercalamento di quella r eufonica. Invece, ne' dialetti napoletani, la si fogna in casi simili, dicendosi nuosto, masto, fenesta, per nostro, mastro, finestra. E così, dalle Alpi al Lilibeo, tutti i vernacoli fanno a gara straziando in mille varî modi il puro tipo aulico dei vocaboli: chi toglie, chi aggiunge, chi muta; chi amputa, chi gonfia, chi stravisa: accade delle parole quel che delle leggi nelle preture e nei tribunali; e quel ch'è peggio, anche in fatto di lingua abbiamo pluralità di cassazioni! Manca l'unità di criterio.
[6] Robba, con due b anche presso il Giusti, in rima con gobba. Così pronunziano difatti malamente i toscani.
[7] A divertirsi, invece di a divertirci; così pure dicono come formola di addio arrivedersi invece di arrivederci, neutralmente. Andare per un viaggio a divertirsi è ciò che più comunemente suol chiamarsi fare un viaggio di piacere.
[8] Meglio, come apocope di migliore, è invariabile. Così peggio, maggio, scorciamento di peggiore, maggiore. In Firenze, Via Maggio, che tuttora esiste, dove erano i giardini della Bianca Cappello, come può vedersi nelle novelle del Malespini.
[9] I rimanenti Italiani rimproverano a' Fiorentini di salar poco le vivande. Mi rammento ed ho conservato un articolo del Corriere Italiano, giornale che pubblicavasi a Firenze quando c'era la capitale. Diceva così:—«E poi confesso ch'io ho in uggia il fornajo prettamente fiorentino, per quel suo pane scipito.... È un gusto come un altro, ma a me piace salato un buon poco. Un bello spirito, la prima volta che gli venne fatto di mangiare del pane di questo paese, dolce dolce, da dare la nausea, disse come ispirato: To' to'! adesso comprendo!—Che comprendi? chiese un amico.—Mi spiego, cioè, rispose, l'esclamazione Dantesca: «Come sa di sale lo pane altrui!» Si comprende netto,