La Signorina. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

La Signorina - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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Noi?... Abbiamo agito leggermente?... Noi?... Quando?

      — Ieri sera; coi padrini del Bonaldi.

      — Leggermente? Nobilmente vuoi dire, coraggiosamente!..... Abbiamo accettato, senza ribatter parola, tutte le condizioni del nostro avversario! Più gentiluomini di così, vivaddio, non si poteva essere!

      — Abbiamo accettato condizioni troppo gravi.

      — Avevamo dal nostro Savoldi un mandato imperativo.

       — Appunto!.... Un mandato imperativo non dovevamo accettarlo, assolutamente. La volontà del «primo» dev'essere subordinata ai doveri indeclinabili dei padrini.

      E in istrada mentre si avviano a prendere il Savoldi, che li aspetta in piazza del Duomo, al Caffè Carini, Francesco Roero a capo chino, sempre imbronciato borbotta ancora con un impeto sordo d'amarezza e d'ira:

      — Sì; leggermente!..... Abbiamo agito troppo leggermente: con troppa fretta.....

      Ma queste parole, il Roero, più che per il suo compagno, le ripete nella propria coscienza, come un rimprovero per sè stesso.

      È il suo tormento, è il suo rimorso. È perciò che non ha mai potuto chiuder occhio in tutta notte!

      Quand'egli s'è trovato la sera innanzi al Caffè dell'Accademia, in presenza dei due rappresentanti del Bonaldi, il marchese Emanuele Estensi e il conte Carlo Faraggiola, s'è sentito preso, lì per lì, da un senso improvviso di mortificazione e di timidità.

      Il commendator Bonaldi e il quasi ignoto..... Nespola! Era l'aristocrazia e la democrazia che si trovavano di fronte; e a Francesco Roero, che fin allora non ci aveva pensato, seccava assai di trovarsi all'Accademia a sostenere la democrazia.

      Il marchese Emanuele Estensi e il conte Carlo Faraggiola, non erano soltanto i rappresentanti del ricco e reputato giornalista moderato conservatore, con una punta di clericalismo; non erano soltanto i rappresentanti del partito politico di don Giulio Arcolei ma rappresentavano i due rivali suoi più temibili presso il cuore della Fáni; rappresentavano le idee, i pregiudizi, i gusti, i sentimenti, le raffinatezze, l'eleganza, l'ambiente, la corte della bella baronessa.

      Egli sentiva che avrebbe potuto far perder la testa, far commettere qualunque scappatella alla Fáni, ma sentiva pure che presso il soglio della baronessa, egli non avrebbe mai avuta l'autorità di que' due, però li detestava e li ammirava, li metteva in ridicolo e li invidiava. Francesco Roero era ricco, era entrato ormai nel sancta sanctorum della più ristretta società milanese, ma perchè suo padre, un fittabile di Lodignola, si era logorato la vita accumulando per lui. E in faccia al conte Carlo Faraggiola e al marchese Emanuele Estensi, avendo da rappresentare la repubblichetta spiantata del povero Nespola, Francesco Roero si era sentito più che mai..... il figlio di suo padre e nient'altro!

      Allora, per mantenersi in credito e in sussiego, più assai preoccupato dei giudizi e dei pregiudizi della Fáni che non della pelle del povero Nespola, per l'ansia di mostrarsi lui, in tutta la sua condotta, ancor più gentiluomo di quei due campioni autentici della vecchia razza, a furia d'inchini, di sorrisi garbati e di compiacente cavalleria aveva finito per accettare tutte le condizioni e le pretese poste innanzi dagli abili avversari, con grande vantaggio del loro primo.

      Il Savoldi che aspetta fuori dal Caffè Carini, appena scorge il Roero e il Loreda alza le braccia e le mani festosamente in segno di saluto, li raggiunge affrettando il passo e subito, per scherzare e per far ridere il Roero, domanda rivolgendosi comicamente serio a Nicoletto:

      — Come mai?... Non vi siete messo in uniforme?

      E lo scapigliato e rumoroso giornalista, continua per tutta la strada e anche sul terreno, durante tutti i preparativi per lo scontro, a scherzare, a ridere, a dir spiritosaggini e buffonate alle spalle di Nicoletto Loreda che fa «l'omeno d'arme» con una disinvoltura e un'animazione straordinaria e alle spalle persino del suo stesso avversario, il Bonaldi, ch'egli chiama sottovoce don Torquemada, per la testa calva ossuta ergentesi sull'alta e rigida persona, per la faccia pallida marmorea, dall'occhio nero obliquo, dal naso adunco, dall'espressione impassibile e impenetrabile.

      Nespola s'è accorto che il Roero «ha la luna»; pensa di averlo seccato col farlo alzar troppo presto e tutti i suoi sforzi sono appunto per metterlo di buon umore, ma non ci riesce.

      E nemmeno il Roero, per quanto si sforzi, riesce a vincersi: la stessa limpida serenità di quella fredda mattina di gennaio, gli penetra nel sangue, nelle ossa con un brividore sinistro che gli agghiaccia l'anima e che lo prostra.

       Quanto la sera innanzi è stato garbato, deferente, remissivo, altrettanto adesso è ostinato, cavilloso, risoluto, perfino aspro nel difendere, nel tutelare i diritti del suo primo.

      A momenti sembra quasi ch'egli stesso cerchi una questione coll'Estensi e col Faraggiola. Strapazza Nicoletto Loreda che sembra a nozze e quando vede in un angolo del cortile il giovine chirurgo dalla barba ispida e dalla folta capigliatura arruffata preparare i ferri, le filacce, le bende, è preso da un tremito convulso.

      ..... Eppure s'era battuto lui stesso più d'una volta, coraggiosamente. Ma allora si trattava della sua pelle! Era padrone lui, lui solo, della sua propria pelle!

      È con terrore che vede avvicinarsi il momento in cui i duellanti saranno di fronte: e il momento si avvicina.

      A mano a mano, nel dare le ultime disposizioni, la sua voce si fa bassa, roca, il suo occhio incerto e smarrito.

      E il freddo, il freddo di quella mattina scialba, sinistra, maledetta che gli fa battere i denti, e piegar le ginocchia.....

       E il momento, il terribile momento si avvicina rapido, preciso, incalzante!... È un lampo!... Come sarebbe felice il Roero se potesse battersi lui..... se dovesse anche pigliarle lui invece di quell'altro!

      — Sarà colpa mia, se accadrà una disgrazia!...

      La sera innanzi, al Caffè dell'Accademia, durante le trattative, nel fissare le condizioni di quello scontro era ubriaco, era pazzo, cos'era successo?...

      Non aveva preveduto nulla, pensato a nulla!...

      — No! No! Non dovevo aderire, dovevo oppormi alle generose ingiunzioni del mio primo!... Non dovevo accettare così, ad occhi chiusi, in fretta, leggermente tutte le condizioni dell'avversario! Leggero! Leggero! Sono stato leggero, persino sleale! Sono colpevole! Sono un vigliacco!

      Si estrae a sorte la scelta del terreno: il favorito è il Bonaldi.

      A questo primo scacco della fortuna il cuore del Roero ha un'altra stretta più forte.

      La sorte è pure in favore degli avversari assegnando al conte Faraggiola la direzione del combattimento.....

       — Se fossa toccato a me — pensa il Roero — mi sarebbe mancata la forza!.....

      I due avversari, ai lati opposti del cortile, si levano in fretta la giacca, il panciotto, la camicia; a petto nudo, sono posti l'uno in faccia all'altro. Che cosa fanno?... Che cosa fa?... Il Roero non lo sa nemmeno: agisce meccanicamente, automaticamente.

      Nicoletto Loreda gli dà una sciabola:

      — Com'è pesante!...

      Il Faraggiola, alto, biondo, compassato come un diplomatico inglese, è in mezzo agli avversari e prende con ambe le mani, per misurare la distanza, le punte delle due lame.

      — Signori, in guardia!

      Tutto il piccolo cortiletto, avvolto in una luce che il freddo rende cristallina, gira lentamente dinanzi agli occhi del Roero, colle figure nere simmetricamente disposte dei testimoni e del medico, il petto ignudo dei duellanti, le loro sciabole diritte che luccicano.....

      Il Faraggiola lascia libere le punte delle due lame e si scosta di alcuni passi, retrocedendo:

      — A loro!

       Il Roero trasalisce, spalanca gli occhi esterrefatti. Un momento di sosta, di ansia.....

      Un uccellino, di volo, si ferma dondolando sopra una


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